Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Giustizia o ingiustizia? È complicato stabilire a quale di queste due categorie appartenga la polemica esplosa su Adriano Sofri che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva invitato, in qualità di esperto, agli Stati generali dell'esecuzione penale.
Lo dico subito e a scanso di equivoci. Non è mia intenzione polemizzare con la famiglia Calabresi, con la vedova Gemma e il figlio Mario, che, come tutte le vittime hanno e avranno sempre il diritto a manifestare il proprio dolore nelle forme e con gli argomenti che riterranno più opportuni. Né è mia intenzione dibattere sulla colpevolezza o l'innocenza di Adriano Sofri, sulle quali si è già espressa la magistratura con una sentenza di condanna definitiva. Il punto non è se Adriano Sofri sia colpevole o meno ma se possa o no dare il proprio contributo ad un'iniziativa governativa che dovrebbe indagare sull'universo carcerario, sulle sofferenze e sul malessere che ad esso sono immanenti. È lecito che agli Stati generali dell'esecuzione penale si racconti il dolore intimo di chi deve pagare i propri errori attraverso il carcere? È lecito che nella discussione sulle carceri italiane, più volte oggetto di ammonimenti e condanne da parte della giustizia europea a causa della loro disumanità latente, si possano rappresentare anche gli stati d'animo di chi vive privato della libertà e che, seppur colpevole, è, e resta, sempre una persona?
La scelta del ministro Orlando di chiedere un contributo a Sofri rispetto all'assise del mondo carcerario rispondeva in modo implicito e intelligente a queste domande, cercando al tempo stesso di trasmettere un messaggio di positività per chi il mondo lo guarda dall'altro lato delle sbarre, da dove, spesso, l'orizzonte della riabilitazione assume le forme sbiadite del miraggio e i tempi irraggiungibili del mai. Una percentuale, resa nota dal centro studi Ristretti Orizzonti, aiuta a comprendere di cosa si parla: "nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere". Questo dato descrive in maniera precisa come la prima vittima della detenzione nelle carceri italiane sia la speranza che con grande facilità cede il passo alla cupa disperazione e, spesso, al suicidio.
Gli Stati generali dell'esecuzione penale, senza la capacità di tradurre numeri e percentuali, in esperienze e sensazioni, sarebbero un esercizio per addetti ai lavori, un convegno ricco di report ma incapace di indagare il fenomeno carcerario nella sua complessità: complessità che è impossibile comprendere se non si analizza anche la prospettiva di chi sta "dentro". Adriano Sofri avrebbe potuto, attraverso la sua esperienza, sintetizzare con precisione proprio quegli stati d'animo che prova chi, mentre sconta la propria pena, rischia di smarrire, per fattori psicologici o materiali, la propria umanità.
Chi ha stima di Adriano Sofri (e io sono tra quelli) non pensa affatto agli anni settanta e al retaggio di un periodo storico in cui violenza e politica si sono ibridati pericolosamente ma alla profondità di Altri Hotel o al racconto della tragedia di Sarajevo, vergogna che galleggia tra l'incoscienza e la rimozione nella storia di quell'Europa che allora come oggi, paralizzata dal bug di un burocratico immobilismo, è incapace di intervenire per fermare le tragedie che le divampano sotto il naso.
La polemica su Adriano Sofri esplicita una visione preoccupante degli istituti di pena, quella di chi li considera una discarica di umanità irrecuperabile che non potrà mai più dare un contributo alla società, nonostante l'espiazione della pena. Una visione da cui, purtroppo, non si è discostato nemmeno il Sappe, Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria che, per primo, ha innescato la polemica. Sarebbe stato nel loro interesse avere un punto di vista da parte di chi ha dovuto vivere una parte della propria vita dall'altro lato delle sbarre: al confronto hanno preferito la strada della semplificazione assegnando implicite etichette di moralità. Semplificazione per semplificazione sarebbe facile dire che il Sappe ha scelto di ridurre la propria categoria al ruolo di "secondini".
Sui politici che hanno alimentato la polemica montando un vero e proprio caso è inutile soffermarsi: sono il prodotto del nostro tempo, il risultato dell'ignoranza di lotta e di governo che ormai ha sostituito l'analisi e lo studio dei fenomeni e, spesso, anche il buon senso. D'altronde come si può dare peso alle patenti di "dignità" rilasciate da chi non è stato capace di condannare con la dovuta fermezza le torture avvenute al G8 di Genova e che, anzi, senza scomporsi di un millimetro è riuscito addirittura a giustificare le azioni di chi si è spinto fino a violentare la Costituzione?