martedì 31 maggio 2011

La febbre dell'oro in Cina

Segnale anticipatore di una nuova crisi finanziaria?
In Cina sembra proprio che sia scoppiata la febbre dell'oro. Si sa che l'oro è uno dei metalli più rari, e dunque preziosi, esistenti al mondo. Secondo i dati del World Gold Council, il Consiglio Mondiale dell'Oro, sulla terra ci sono 165.000 tonnellate di oro, estratte durante tutto il corso della storia umana; per avere un'idea esatta di quanto sia poca la quantità d'oro esistente, basta dire che tutto l'oro del mondo entrerebbe in una stanza lunga 20 metri, larga sempre 20 metri e profonda ancora 20 metri, ossia un cubo. E' dunque, la rarità a rendere l'oro un bene tanto prezioso. 
    Negli ultimi anni, la Cina sta sperimentando una veloce e iperbolica crescita economica, tanto che nel 2010 è diventata la seconda economia del mondo ed entro pochi anni diventerà la prima economia del mondo, sorpassando gli Stati Uniti.
    Ovviamente, la crescita economica della Cina si riflette anche e forse soprattutto nel consumo di oro. Sempre secondo il citato World Gold Concil, nel corso del 2010 la domanda di oro in Cina è stata di 579,5 tonnellate, più del doppio rispetto a quella statunitense, arrivata a 233,3 tonnellate. Secondo quanto riportato da Forbes, il 25% della produzione mondiale di oro finisce in Cina. E' tra i precursori che imboccarono con decisione la strada dell'incremento dell'oro nella riserva della sua banca centrale.
    Dal 2007 la Cina, anno in cui ha superato il Sudafrica, è il principale produttore mondiale di oro e nel corso dell'ultimo anno ha registrato una produzione record di 340 tonnellate. Benchè, sia ormai il principale produttore mondiale di oro, la enorme domanda interna, nel 2010 ha fatto crescere le importazioni di ben cinque volte rispetto al 2009. Nel corso del primo mese del 2011, la febbre dell'oro ha avuto una forte impennata, se si considera che la Banca Industriale e Commericale della Cina ha venduto circa 7 tonnellate di oro fisico, contro le 15 tonnellate dell'intero 2010.
    La Cina, dunque, ha una vera e propria febbre per l'oro, ma perchè accresce gli acquisti del metallo giallo? Non è facile dare una risposta, ma si possono avanzare alcune ipotesi. Innanzitutto, potrebbe tutelare i propri investimenti internazionali, diversificando l'uso del piramidale eccedente monetario generato dalle esportazioni. Finora, il principale investimento era rappresentato dai dollari e dai titoli cartacei del debito pubblico degli StatiUniti. Di fatto la Cina detiene la più grande riserva mondiale di dollari, più di 2.800 miliardi, oltre ad essere il paese che possiede la quota piu alta del debito pubblico statunitense (altri 1.160 miliardi sempre in dollari). Altra possibile spiegazione di questo accumulo d'oro sarebbe la necesita di tutelarsi contro i forti rincari dei beni agricoli, in tal senso la FAO mette in guardia contro l'impennata dei costi, e la Banca Mondiale pronostica scarsità del cibo e possibili ribellioni a macchia di leopardo.
    Non mancano altre ipotesi, anche inquietanti. La Cina vorrebbe imporre al mondo, come moneta di riserva mondiale il Yuan, la sua moneta, in sostituzione o parallela al moribondo dollaro. A tal fine è necessario che –oltre alla forza propulsiva della sua economia- sia rispaldata, garantita e protetta anche dall'oro. Se la Cina ha deciso di accelerare l'incremento delle proprie riserve in oro, come passaggio necessario per internazionalizzare il yuan, possiamo ben aspettarci un considerevole balzo verso l'alto del prezzo dell'oro. Secondo varie fonti stiamo andando a ritmo sostenuti verso questo scenario. Ad esempio, Chuck Butler, presidente di Ever Bank, prevede che l'oro nei prossimi anni possa raggiungere i 5.000 dollari.
    Un dato comunque sembra certo. Secondo il Wall Street Journal, la Cina già dal prossimo aprile permetterà la conversionediretta della propria moneta in altre valute; ciò al fine di favorire e facilitare gli scambi dei propri operatori commerciali.
    E' da escludersi la possibilita di sostituire il dollaro con una moneta d'oro, come recita il comma 1, dell'art 4 del trattato di adesione al FMI, ratificato nel 1978, ma c'è da aggiungere che di fronte a sconvogimenti totali ed alla riconfigurazione della gerarchia delle economie reali nell'epoca dell'emersione multipolare, anche questi accordi potrebbero andare a rotoli o ridefinirsi; per cui, anche questa ipotesi non è poi tanto fanta economia. Persino il Brasile, nell'ultimo conclave del G20, ha espresso a voce alta la proposta di sostituire il dollaro con un paniere di monete (tra cui il yuan, il real carioca, la valuta del Sudáfrica ecc). Già da tempo la Russia si è pronunciata per una soluzione analoga o alternative orientate in tal senso. La grande debacle dell'egemonia dell'economia finanziaría, resa visibile dal finanziamento pubblico ai suoi santuari principali (Wall Street e la City londinese), ha determinato uno spostamento di risorse verso le materie prime, oro, produzione di alimenti, cioè beni tangibili non più cartacei.
    Il prodotto lordo degli Stati Uniti è costituto ancora dai "prodotti finanziari" e dall'export del settore armamentista (che vive fondamentalmente con il bilancio statale). I consumatori nordamericani, in realtà consumano troppe merci d'uso quotidiano importate dalla Cina.
    Nel corso dell'ultima visita del presidente cinese a Washington, abbiamo assistito ad un inatteso capovolgimento della prospettiva. La Cina ha firmato contratti con la Boing per 600 milioni di dollari; in cambio, Obama ha dovuto ascoltare il massimo leader cinese dire in piena Casa Bianca che il dollaro non è eterno, ha già compiuto la sua principale funzione, e che si va verso un'evoluzione. Chi l'avrebbe immaginato cinque anni addietro? La realtà supera quasi sempre la fantasia.
    In altre parole, Hu-Jintao ha calato apertamente le carte sul tavolo e cosa più importante, non è un azzardo, nè una bravata; ha potuto farlo perchè ha i muscoli necessari per difendere con energie i suoi argomenti. La settimana precedente alla visita di Hu-jintao, esattamente l'11 gennaio, la Cina ha collaudato con succeso il cacciabombardiere Jian 20 (J-20), che fornisce la superiorità -o una altissima competitività- negli spazi in cui si determina una parte importante della gerarchia strategica. Gli Stati Uniti si saranno ricordati del loro gioiello costretto ad atterrare dall'aviazione cinese dopo aver violato la sovranità aerea.
    L'ultima ipotesi, la più inquietante, e per questo lasciata per ultimo, è che la febbere dell'oro di Pechino è dettata dalla certezza che siamo alla vigilia di un altro terremoto finanziario mondiale. Tutti i Paesi e le grandi economie occidentali, industriali sono altamente indebitati ed i loro debiti pubblici sono praticamente insostenibili, impagabili. La Cina diagnostica e pronostica quel che è a tutti gli effetti il "tracollo occidentale", e corre ai ripari per tutelarsi da questa possibile ed imminente crisi finanziaría mondiale. Siamo alla vigilia della grande crisi, momentaneamente superata negli anni 2008 e 2009 con i grossi trasferimenti di denaro pubblico alle banche ed imprese in crisi?


Attilio FollieroeCecilia Laya, Caracas
http://www.emigrazione-notizie.org/articles.asp?id=427

Nasce il più grande polo chimico del mondo

Economia 2

L'intesa per Porto Torres

 

Raggiunto a Palazzo Chigi l'accordo per il rilancio del polo industriale sardo. Eni e Novamont danno vita a un colosso della chimica verde. Soddisfatti i sindacati. Filctem: "Scommessa sul futuro". Cgil: "Benefici per tutti, salvati 700 posti di lavoro"

 

Il polo chimico più grande del mondo sta per nascere in Sardegna, a Porto Torres. Lo afferma la Filctem Cgil che oggi (26 maggio) ha annunciato la firma alla Presidenza del Consiglio del protocollo d'intesa per il rilancio del polo industriale di Porto Torres, a Sassari. L'accordo è stato firmato da 'Polimeri Europa' (Eni) e 'Novamont', il gioiellino della chimica verde che ha inventato il Mater-Bi, la plastica biodegradabile con cui si fanno i sacchetti per la spesa e i rifiuti.

    Nella nota si legge che "il protocollo d'intesa per 'la chimica verde a Porto Torres' è la scommessa sul futuro della nuova 'joint venture', nata per creare un polo chimico che ha l'obiettivo di dare all'Italia la leadership della chimica verde in Europa e nel mondo, oltre a riconoscere - nero su bianco - la strategicità dell'industria chimica per la crescita economica e lo sviluppo industriale e scientifico del nostro paese".

    Il progetto punta tutto sulla green economy per la riconversione produttiva in attività sostenibili del petrolchimico di Porto Torres, e prevede: la realizzazione di 7 nuovi impianti per la produzione di monomeri bio, additivi per gomma, bioplastiche da realizzarsi in sei anni (2011 - 2016), un Centro di ricerca che aprirà subito, con un investimento di 500 milioni di euro. L'iniziativa si estende anche alla generazione di energia elettrica con un nuovo impianto a biomasse (40 MegaWatt) e un investimento - nell'arco di piano - pari a circa 230 milioni di euro".

    La soddisfazione è molta per Cgil, Cisl, Uil e per i sindacati di categoria Filctem, Femca, Uilcem, firmatari del protocollo insieme alle istituzioni sarde (Regione, provincia Sassari e Comuni interessati), alle imprese e ai ministri coinvolti.

    "Quando la politica industriale- afferma Vincenzo Scudiere, segretario confederale Cgil - si orienta, come in questo caso, verso alti livelli d'innovazione e punta a competere nell'ideazione e realizzazione di prodotti tecnologicamente avanzati ed ecosostenibili, anche l'economia del Paese e dell'intero territorio ne trarranno beneficio, a cominciare proprio dall'occupazione il cui progetto, a regime, prevede circa 700 posti di lavoro (100 in più degli attuali)".

    Continua la nota del sindacato: "Dopo le incertezze sulla politica industriale degli anni scorsi finalmente anche l'Eni propone investimenti in nuove produzioni. Certo, ora spetta al Gruppo fugare ogni dubbio, dimostrando di saper conciliare l'industria chimica verde con lo sviluppo agricolo e il rispetto del territorio".

    Tra l'altro, in serata, è prevista anche la firma di un altro importante protocollo tra Eni e i sindacati del settore Filctem-Cgil, Femca-Cisl, Uilcem-Uil su "sviluppo e competitività e per un nuovo modello di relazioni industriali".

    Il testo firmato oggi "rappresenta un successo dal punto di vista ambientale sotto due importanti punti di vista, perché coniuga risanamento del territorio e sviluppo sostenibile", ha detto il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo. Soddisfatto anche il governatore della Sardegna Ugo Cappellacci: "E' una pagina nuova per il sito di Porto Torres – ha detto - un piano innovativo, idoneo a conquistare i mercati e a creare nuova impresa e nuova occupazione in Sardegna".

La bomba derivati può ancora esplodere

Economia 1

a cura di ItaliaOggi

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Le grandi lobby bancarie internazionali sono tornate alla carica per far sbloccare i derivati finanziari degli enti locali.

    Dopo che gli swap e gli altri contratti derivati avevano sconvolto i bilanci di molti comuni e regioni italiani con perdite disastrose, nel 2008 l'allora governo ne impose il blocco. Senza autorizzazione governativa nessun ente locale era autorizzato a sottoscrivere tali contratti.

    Erano intervenuti anche la Corte dei Conti, la Consob, la Banca d'Italia. Al Senato vi fu un ampio dibattito e furono evidenziati i rischi ma anche le pesanti situazioni determinatesi nei conti di diverse piccole e medie imprese oltre che degli enti locali.

    A fine 2010 i debiti totali degli enti locali ammontavano a 111 miliardi di euro di cui 35 miliardi in derivati. Alcuni di questi contratti si trascineranno fino al 2050 con costi ingenti e crescenti per tante generazioni di cittadini.

    Secondo i bollettini della Banca d'Italia, a fine giugno 2010 i derivati degli enti locali avevano un mark to market negativo, significando che nell'ipotesi di chiusura di tutti i contratti alla data di rilevazione esso sarebbe un costo aggiuntivo di oltre 1 miliardo di euro.

    Da recenti elaborazioni fatte sui dati forniti da Eurostat, nel periodo 2007-10 le amministrazioni pubbliche italiane hanno dovuto sostenere oltre 4 miliardi di euro di maggiori interessi sul debito a seguito degli andamenti dei loro contratti derivati in essere. Essi sono soprattutto operazioni miranti ad allungare la durata del debito sovrano e alla «protezione» dalle eventuali improvvise oscillazioni sui tassi di interesse. La citata spesa addizionale in parte è dovuta proprio alla performance dei derivati degli enti locali.

    Al Ministero dell'economia da un po' di tempo circolano le bozze di un nuovo regolamento in materia di derivati che, oltre alle ovvie esigenze di trasparenza e di chiarezza nelle informazioni contenute nei contratti, dovrebbe ridurre il rischio per gli enti locali.

    Finora l'approccio chiamato «risk-based» suggerito dalla Consob terrebbe conto degli scenari di rendimento, del grado di rischio e dell'orizzonte temporale. Si tratta di simulazioni di calcolo probabilistico dei rendimenti di un prodotto finanziario. Ciò dovrebbe consentire di verificare i reali costi del derivato rispetto a quelli di un'ordinaria operazione finanziaria. Per vedere se la posizione finale dell'ente locale sarebbe migliore con o senza il derivato. Ciò renderebbe forse più difficile almeno l'introduzione di costi occulti.

    Purtroppo c'è anche una proposta dell'Abi che, anche sotto la spinta dei grandi gestori internazionali dei mercati dei derivati, vorrebbe introdurre l'approccio del «what-if» basato su un modello matematico costruito su una serie di innumerevoli equazioni e di variabili per studiarne gli effetti. È un approccio che aumenta l'incomprensibilità dell'operazione che porterebbe comunque alla sottoscrizione del derivato.

    Trattasi di metodi matematici che non prendono in considerazione possibili rischi sistemici, ma semplicemente delle variabili considerate.

    Noi riteniamo che si dovrebbe invece privilegiare i principi consolidati della buona amministrazione della cosa pubblica. Gli approcci sopramenzionati, anche se apparentemente meno opachi del passato, si basano comunque su delle aspettative probabilistiche di «giochi» e comportamenti della finanza.

    È grave inoltre che si ignori del tutto la richiesta dell'Anci di individuare un giusto percorso per estinguere i vecchi derivati oggetto di molti contenziosi. In alcuni casi, a seguito di denunce per frode presentate in tribunale da alcuni comuni, si è arrivati anche al sequestro preventivo di beni per centinaia di milioni di euro nei confronti delle grandi banche coinvolte.

    Ovviamente la controffensiva legale del sistema bancario a livello internazionale, con effetti anche in Italia, non si è fatta attendere. La JP Morgan, la Bank of America e altre banche hanno denunciato presso l'Alta Corte di Londra per inadempienza del contratto derivato alcune controparti quali le regioni del Lazio, della Toscana, del Piemonte.

    Si sottolinea che quasi sempre il tribunale di competenza era ed è fuori dai nostri confini. È evidente il ritorno di fiamma della grande speculazione e dei derivati finanziari. Sarebbe da irresponsabili riportare gli enti locali ai tavoli verdi del gioco d'azzardo. Perciò il regolamento in elaborazione non può assecondare i desiderata delle grandi banche ma i bisogni di stabilità e di servizi publici della collettività.

Confindustria delusa? Ma noi lo siamo di più

LAVORO E DIRITTI

a cura di rassegna.it

 

Emma Marcegaglia ha bocciato l'Italia. Ha bocciato quasi tutto dell'Italia: il governo che cade a pezzi, l'opposizione che non s'organizza, l'economia che non cresce. Ma le imprese non sono estranee a questi problemi.

 

di Davide Orecchio

 

Emma Marcegaglia ha bocciato l'Italia. Ha bocciato quasi tutto dell'Italia: il governo che cade a pezzi, l'opposizione che non s'organizza, l'economia che non cresce, i sindacati (certi sindacati) che frenano le "cosiddette" riforme. La presidente di Confindustria ha fatto la professoressa, e ha messo brutti voti a tutti.

    Si può essere d'accordo o in disaccordo con l'intervento tenuto all'Auditorium di Roma da Marcegaglia. Si può essere d'accordo col giudizio sulla politica e sull'analisi economica (sugli "anni perduti" come dare torto a Marcegaglia?). Si può concordare con alcune richieste: da una riforma fiscale pro imprese e pro lavoratori alla legge sulla concorrenza. Si può essere in disaccordo, invece, col passaggio sconcertante sull'acqua pubblica. O su quanto affermato da Marcegaglia riguardo alla flessibilità del lavoro (che in teoria sarà anche affascinante ma nella pratica italiana, chissà perché, si trasforma sempre e solo in precaria schiavitù). Sono tutte posizioni, quelle che piacciono e quelle che piacciono meno, ovviamente legittime e sulle quali è per tutti doveroso confrontarsi con l'importante e potente associazione degli industriali italiani. Qui abbiamo pubblicato un po' di reazioni all'intervento di Marcegaglia.

    Ci sono però due aspetti di quest'assemblea annuale di Confindustria che stonano. Il primo è il video che ha aperto la giornata all'Auditorium. Il corriere.it ne ha pubblicato un frammento consentendone a tutti l'embed.

    Si tratta di una clip sulla storia d'Italia, l'avrete capito. Un gran mischione su noialtri e il nostro passato nel quale tutto convive melodiosamente: l'inno di Mameli e Bella Ciao, Faccetta Nera e Volare di Modugno insieme a Viva l'Italia di De Gregori. Vista la spregiudicatezza degli accostamenti, non capisco perché non ci abbiano messo anche il Triangolo di Renato Zero. In fondo anche quella canzone è un tassello importante della nostra storia e del nostro costume.

    Dove trova il coraggio, questo video, per mixare insieme l'inno nazionale, una marcia fascista e la canzone simbolo della Liberazione? Credo dipenda da una prospettiva e da un distacco, per così dire, cinicamente olimpici. Nel senso che se ti collochi sull'Olimpo, o anche in un grande Centro indifferente a qualsiasi passione politica o ideologica, poi diventa facile rappresentare l'Italia e la sua storia come una notte in cui tutte le vacche sono nere, una lunga notte/medley in cui la canzone del partigiano assume lo stesso colore del motivo fascio-razzista o dell'inno risorgimentale.

    Insomma, la Confindustria e la sua presidente si sono accomodate sul monte degli dei e da lì hanno cominciato a tirare dardi e saette su di noi. E qui passiamo al secondo aspetto discutibile della giornata, che riguarda il tono generale, il timbro dell'intervento di Marcegaglia. Forse mi sbaglio e allora accetterò correzioni, ma nella disapprovazione complessiva della politica italiana e dei suoi gruppi dirigenti mi sembra di aver colto una convinzione di alterità ed estraneità anche morale (non a caso la citazione di Max Weber) che è francamente poco sostenibile. Marcegaglia ci ha voluto convincere del fatto che le imprese italiane sono la parte sana e migliore del paese. Un paese che, per quanto resta, cade invece a pezzi. Rieccoci al refrain dell'Olimpo.

    Ma la presidente di Confindustria è davvero convinta che gli industriali italiani non abbiano avuto alcun ruolo nel declino di questo paese? Quella di una Confindustria che da anni chiede innovazione e riforme a un paese che non l'ascolta e invecchiando muore, è una storia quantomeno romanzata. La realtà invece è che della nostra agonia sono responsabili tutti i ceti dirigenti nazionali, spesso inadeguati ai loro compiti, imprenditori compresi. Non si può separare Confindustria da ciò che l'Italia è, nel bene e nel male. Come non la si può separare dal nostro passato, perché non saremmo stati italiani uniti e poi fascisti e poi democratici senza determinate scelte da parte delle imprese.

    Alla fine del suo intervento Marcegaglia ha promesso: "Saremo pronti a batterci per l'Italia, anche fuori dalle nostre imprese, con tutta la nostra energia, con tutta la nostra passione, con tutto il nostro coraggio". Il che ci conferma che Confindustria è al nostro fianco nella palude italica e non su distanti alture, piaccia o non piaccia.

Zingaropoli Islamica !?

L'associalzione milanese degli immigrati "Naga" presenta un ricorso antidiscriminazione contro la Lega Nord e il PDL.
I giudici sono stati i primi obiettivi della campagna elettorale delle destre a Milano, i cittadini stranieri, come prevedibile, sono invece l'obiettivo del secondo turno.
    In particolare i cittadini Rom sembrano avere un posto d'onore nella campagna elettorale del Sindaco uscente: la città è stata tappezzata di manifesti dove si paventa il rischio che Milano diventi una "zingaropoli".
    Anche i cittadini italiani e stranieri di fede musulmana non sono comunque stati dimenticati e il Presidente del Consiglio ha dichiarato che Milano potrebbe diventare una "zingaropoli islamica" con la più grande moschea d'Europa.
     "Di fronte al contenuto altamente discriminatorio dei manifesti e delle dichiarazioni di questi giorni nei confronti dei Rom, una minoranza protetta ex lege e dei cittadini italiani e stranieri di fede musulmana, abbiamo presentato stamani, ai sensi del D.Lgs. 215/2003 e del D.Lgs. 286/1998, un ricorso al Tribunale Civile di Milano contro la Lega Nord e il Popolo della Libertà" dichiara l'avv. Pietro Massarotto presidente del Naga, "Abbiamo denunciato il linguaggio e i contenuti altamente discriminatori delle affissioni e delle dichiarazioni, ma anche il fatto di aver utilizzato l'esistenza stessa di cittadini stranieri e Rom come fattore di paura sociale." Prosegue il presidente del Naga, "Proviamo a sostituire alcuni termini utilizzati nella cartellonistica della Lega Nord con altri relativi ad altri gruppi sociali e/o minoranze: "Milano giudeopoli con Pisapia" "Milano finocchiopoli con Pisapia" oppure "La più grande chiesa cattolica/sinagoga d'Europa", cosa sarebbe successo? Abbiamo pensato che fosse urgente intervenire e cercare di porre argini ad un processo di normalizzazione della discriminazione chiedendo al giudice, con provvedimento di urgenza, la rimozione dei manifesti e la cancellazione dai siti di queste inaccettabili dichiarazioni", conclude Massarotto.
    Augurandoci di vedere una città dove tutte le minoranze saranno accolte, tutelate e valorizzate, come Naga continueremo a dare assistenza a chiunque e a denunciare ogni forma di discriminazione.


SIAMO DECISAMENTE AL VOSTRO FIANCO !
LA RED DELL'ADL

mercoledì 25 maggio 2011

Parmalat e Goldman Sachs: un rapporto particolare

Perché mai tra tutti i possibili advisor finanziari, nazionali ed internazionali, la Parmalat ha incaricato proprio la banca d'investimento americana Goldman Sachs di valutare la fairness option, cioè il parere di congruità sul prezzo dell'Opa lanciato dalla francese Lactalis? Non riusciamo trovare una risposta razionale.
 
di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista
 
Lungi da noi l'intento di proporre alcun candidato alternativo o concorrente. La scelta della Goldman Sachs è comunque sorprendente. Essa, come è noto, è al centro di indagini per i suoi comportamenti speculativi e non corretti soprattutto alla vigilia e nelle fasi calde della più grave crisi finanziaria di tutti i tempi.
    Due dettagliatissime indagini sulle cause del collasso finanziario condotte dalle competenti commissioni d'inchiesta americane hanno identificato la GS tra le principali "fucine" del rischio e dei default.
    Il cosiddetto Rapporto Levin della Commissione Permanente per le Indagini del Senato Usa dedica più di 250 pagine all'analisi dei comportamenti della citata banca d'affari. Esso segnala ben 12 casi di conflitto di interesse. Il primo riguarda le posizioni al ribasso assunte all'insaputa di tutti contro i titoli da lei "impachettati" per differenti clienti.
    Si trattava dei derivati Cdo, chiamati Hudson, Anderson e Timberwolf, legati ai mutui subprime e alle ipoteche immobiliari.  Nel 2007 intascava da queste operazioni un profitto di ben 1,7 miliardi di dollari mentre invece i detentori dei titoli vedevano il loro valore crollare anche per l'effetto di questi giochi speculativi.
    La Goldman Sachs non aveva rivelato l'inserimento in alcuni specifici Cdo offerti ai clienti anche di derivati Cds da lei controllati per 1,2 miliardi di dollari. Evidentemente l'intento era quello di trasferire ad altri i titoli a rischio in suo possesso.
    Nel caso del Cdo sintetico Abacus, la GS permise ad un cliente, l'hedge fund Paulson & Co. Inc, di selezionare i sottostanti (asset) di un Cdo, ben sapendo che lo stesso cliente era impegnato in operazioni al ribasso sul titolo. Poi sollecitò gli investitori a comprare pur consapevole che essi avrebbero perso alla grande. Naturalmente la GS ottenne laute commissioni e l'hedge fund incassò 1 miliardo di dollari.
    La stessa banca, che era stata nominata e profumatamente pagata come "agente liquidatore" di alcuni titoli in caduta libera, ritardò deliberatamente le operazioni  facendo perdere somme enormi ai loro detentori.
    Essa ha inoltre nascosto informazioni. Ha venduto titoli sopravvalutati che subito dopo venivano svalutati. Sempre secondo la Commissione del Senato Usa, ha posposto interventi finanziari per i quali si era impegnata. Ha celato spesso le proprie intenzioni di giocare al ribasso sui titoli che piazzava ai clienti a prezzi esorbitanti. Il Rapporto si basa su decine di migliaia di pagine di documenti ufficiali portati a riprova delle accuse.
    Il ruolo della GS, insieme a quello degli altri primi attori di Wall Street, è al centro anche delle analisi della "Commissione nazionale Angelides" sulle cause della crisi economica e finanziaria negli Usa. Anche in questo rapporto vengono esposte le speculazioni al ribasso "nascoste" fatte su titoli a rischio e di bassa qualità che la GS metteva sul mercato. La sua strategia fu ammessa da un alto dirigente che aveva invitato l'intera struttura della banca a un aggressivo collocamento di tali titoli tra gli investitori. "Vogliamo essere nella posizione di trarre vantaggio quando il mercato andrà in distress (cioè in fibrillazione e in perdita)", così egli affermava.
    Quando nel caso specifico del Cdo Abacus 2007-AC1 la Security Exchange Commission, la Consob americana, l'accusò di frode, la GS nel luglio scorso fu pronta a pagare senza battere ciglio 550 milioni di dollari di multa pur di chiudere il caso e sottrarsi all'attenzione della pubblica opinione.
    In Europa si acuisce il problema del debito pubblico greco, sul quale qualcuno gioca sporco tanto da paventare lo sganciamento della Grecia dall'euro. Si dimentica però il ruolo svolto dalla GS e dalle altre banche americane e internazionali, in evidente combutta con le istituzioni elleniche per mascherare i buchi di bilancio con operazioni in derivati finanziari, su cui la Fed e la Sec all'inizio del 2010 avviarono delle indagini.
    Spregiudicatamente le stesse banche si sono poi buttate a speculare sul default della Grecia! Detto questo, non è certamente nostra intenzione individuare la GS come la sola causa di una crisi che abbiamo sempre definito sistemica.
    Nei confronti della Parmalat la GS ha da tempo avuto un occhio attento. Stando ai resoconti riportati anche sulla nostra stampa nazionale, la GS aveva nel luglio 2008 il 2.015% delle azioni di Collecchio. La quota era poi salita  fino al 4,92% per poi scendere a 1,995% a fine 2010.
    Dal 1999 l'amministratore delegato della GS fu Henry Paulson. Lasciò il posto nel 2006 per diventare ministro del Tesoro americano. Fu lui a finanziare il salvataggio delle banche e a lasciare che l'economia sprofondasse nella crisi.
   Certo che la Goldman Sachs deve avere ancora molti santi protettori in paradiso, anche nei cerchi dove si parla italiano.

mercoledì 18 maggio 2011

Denigrano il premier !

Denigrano il premier !
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Carissimi, a sentire il presidente del consiglio e gli esponenti del governo, la scuola italiana è preda di docenti tutti comunisti che inculcano agli studenti valori contrari a quelli delle famiglie, che adottano libri di Storia faziosi che denigrano il premier… Allora andiamo a vedere cosa succede in una regione dove governano i buoni: ad esempio il Veneto. E' quello che fa la puntata di questa settimana di vivalascuola:

http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2011/05/09/vivalascuola-81/


La puntata è come sempre completata dalle segnalazioni e informazioni della settimana scolastica: in questo caso sono in primo piano i precari e le prove Invalsi.

Grazie dell'attenzione, e un cordiale saluto.
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Giorgio Morale, Milano

mercoledì 11 maggio 2011

NE' NUCLEARE NE' IDEOLOGIE

Riceviamo e volentieri pubblichiamo



Affrontare la questione del nucleare con rigidità ideologiche (quale che siano le posizioni) è un errore che impedisce il corretto confronto e la corretta informazione. Stiamo già subendo i danni provocati dagli errori del passato per scelte, basate sulle ideologie capitaliste del massimo sfruttamento o su teorie pseudo ambientaliste, più di natura romantica che scientifica: errare humanum est, perseverare autem diabolicum!
Il problema – per il nucleare, come per gli OGM, il carbone, ecc. - è garantire la tutela delle generazioni future e la massima sicurezza possibile degli uomini di oggi, accettando però il fatto che l'uomo non è perfetto e quindi tutela e sicurezza vanno continuamente verificate, mai date per definitive: non dimentichiamo che, quando parliamo di sicurezza, parliamo di un valore probabilistico e legato alle conoscenze del momento. Di qui la necessità di essere sempre pronti ad aggiornare le proprie convinzioni e certezze, anche cambiando completamente posizione.
Per certo il problema delle scorie è oggi completamente irrisolto non solo in Italia (l'ex Presidente del Cnen, ora Enea, Felice Ippolito, nuclearista convinto, dichiarò in Parlamento che in Italia non esiste un luogo sicuro dove stoccare le scorie nucleari), ma anche negli USA o in Europa dove i rifiuti radioattivi vanno avanti e indietro in treno per finire al punto di partenza. Sia che si tratti di scorie a lunga vita (milioni di anni) o con tempi di decadimento di qualche centinaio di anni.
Se neppure gli USA sono riusciti a risolvere il problema del deposito dopo aver speso milioni di dollari nel tentativo di realizzarlo a Yucca Mountain, forse qualche motivo ci deve ben essere. Sarà il genio italico a risolverlo? Forse quello industrial-mafioso, scaricandole da qualche parte in Africa o in fondo al Tirreno, come è stato già fatto con le scorie tossico-nocive (e forse pure radioattive) delle nostre industrie.
Quanto alla sicurezza delle centrali possiamo discutere a non finire, ma resta il fatto che il rapporto Rasmussen (1975) indicava una probabilità di incidente grave (fusione del nocciolo con contaminazione esterna) ogni milione di anni: Kyshtym, Chernobil, Fukushima, Thre Miles Island… quattro incidenti gravi in sessant'anni! Per non parlare delle piccole perdite di radioattività (130 incidenti denunciati solo in Svizzera tra il 2000 e il 2009): che abbiano qualcosa a che vedere con l'aumento di leucemie infantili rilevate tra i bambini che abitano nel raggio di cinque chilometri dalla centrale di Sellafield (un tempo si chiamava Windscale, gli hanno cambiato nome dopo un gravissimo incidente nucleare) o dalle centrali tedesche (rapporto del Bundesamt für Strahlenschutz, 2008) o da quelle francesi, tante volte denunciate?
Questo per parlare solo di sicurezza, senza entrare nel merito dei costi, degli svantaggi per il territorio, dei tempi di costruzione, degli appalti mafiosi, del rischio sismico, della carenza mondiale di uranio, dei costi e del rischio dello smantellamento delle centrali (100 anni di lavori per demolirle, secondo le previsioni dell'Autorità inglese, per la centrale di Calder Hall).
Vale la pena allora di citare le parole di Richard K. Lester (Direttore del Dipartimento di scienze nucleari dell'Istituto di tecnologia del Massachusetts) riferite alle centrali EPR (European Pressurized Reactor) che si vorrebbero costruire in Italia: "Chi fosse così pazzo da ordinare una centrale di questo tipo non saprebbe né quanto tempo sarebbe necessario per completarla né quali norme di sicurezza usare, né quali prezzi far pagare per l'elettricità prodotta dopo 10 anni, né che fare delle scorie, né quanto affidabile sia l'impianto".
Esattamente quello che sta accadendo in Finlandia o in Francia dove si stanno costruendo le prime due centrali di questo tipo.
Sandro Faleschini - Padova

Brics - Inizia il futuro del mondo multipolare

Economia
a cura di ItaliaOggi
di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista
I paesi del Brics vogliono realizzare un «grande disegno per una prosperità condivisa», cioè vogliono un mondo multipolare, non più quello unipolare di Geore W. Bush, né quello multi partner di Barack Obama e Hillary Clinton in cui gli Usa siano al timone di comando.
Questo è il messaggio forte mandato dai capi di stato dei paesi del Brics che si sono incontrati nell'isola cinese di Hainan per «sentire il polso» dell'economia mondiale e per definire nuove strategie di collaborazione.
Al vecchio Bric (Brasile, Russia, India e Cina) si è aggiunta una s, quella del Sud Africa, un paese di solo 50 milioni di abitanti che, per quanto piccolo rispetto alla Cina e all'India, è molto forte per la funzione assunta, cioè quella di portare l'intero continente africano nella nuova alleanza emergente.
È una notizia che ispira fiducia nel domani, rispetto alla drammatica situazione del Nord Africa.
Purtroppo il mondo dei paesi cosiddetti avanzati arranca, troppo ancorato ai fardelli del passato e ai seri problemi dell'oggi. A giorni, precisamente il 16 di maggio p.v., gli Usa dovrebbero raggiungere il limite massimo del debito pubblico consentito dalla legge finanziaria approvata dal Congresso: 14.300 miliardi di dollari! Dopo di che o sfondano il tetto creando nuovo debito o dichiarano default.
Con un deficit attuale dell'11% del prodotto interno lordo, qualsiasi decisione prenda, Washington rischia di mandare un messaggio destabilizzante ai mercati monetari e finanziari internazionali.
Da parte sua, purtroppo, anche l'Unione europea perde sempre più energia e visione strategica litigando su tutto, come dimostrano le ultime vicende della Libia e dell'immigrazione.
Rispetto a ciò i Brics invece fanno scelte concrete. Nel documento finale del citato summit si asserisce anzitutto che «riconoscendo che la crisi ha messo a nudo le inadeguatezze e le mancanze dell'attuale sistema monetario e finanziario internazionale, noi ne sosteniamo la riforma e il miglioramento attraverso la creazione di un sistema allargato di monete di riserva».
Si vuole quindi promuovere il ruolo dei Diritti speciali di prelievo e l'allargamento della composizione del paniere di monete che ne è alla base. Attualmente sono il dollaro, l'euro, la sterlina e lo yen. Quattro monete in difficoltà che non riflettono più la vera divisione del potere geoeconomico del pianeta.
D'altra parte la Cina da sola ha riserve per 3.000 miliardi di dollari e nel loro insieme i Brics ne contano 4.000 miliardi.
Il dollaro oggettivamente ha perso il ruolo di moneta centrale nel sistema economico internazionale. Non si può perciò ulteriormente ignorare il peso dei Brics che rappresentano il 18% per Pil mondiale e le loro monete.
Per superare la crescente instabilità del dollaro e il rischio di una guerra delle monete, essi hanno messo in campo nuovi accordi monetari che permettono loro di attivare linee di credito denominate nelle loro singole valute. In altre parole, gli scambi commerciali tra la Cina e il Brasile potranno, ad esempio, essere regolati in yuan o in real. Il volume degli interscambi commerciali tra i 5 paesi è pari a 230 miliardi di dollari. E' una cifra ancora non molto rilevante ma in crescita, anche rispetto all'aumento di quasi il 30% annuo del commercio interno al Brics.
Ad Hainan comunque sono stati siglati decine di contratti per miliardi di euro: dagli aerei alle materie prime, dall'energia ai beni di consumo.
Sono le Banche di Sviluppo dei Brics che più di tutti lavorano su queste nuove strategie. La State Corporation for Development and Foreign Economic Affairs russa ad esempio sta per emettere obbligazioni in yuan sul mercato di Hong Kong. Si tratta di un passo ulteriore verso una maggiore indipendenza e diversificazione anche sui mercati finanziari.
Questa nuova situazione nello scenario mondiale dovrebbe suscitare interesse nell'Ue e in Italia. Si ricordi che le suddette banche hanno recentemente aderito al Long term investors club creato dalla rete delle Casse depositi e prestiti europee insieme alla Banca europea per gli investimenti. È una iniziativa importante che spinge la finanza pubblica e privata verso il credito per investimenti di lungo termine in infrastrutture, ricerca, nuove tecnologie, ecc.
I governi del Brics sono anche intervenuti contro i rischi rappresentati dalla crescita massiccia dei movimenti di capitali cross-border. Nei mesi passati parte della grande liquidità creata dalla Federal reserve è andata in cerca di più alti profitti nei paesi emergenti. Ha provocato una spinta inflazionistica e ha aggravato certe bolle speculative. Nelle grandi città brasiliane per esempio i valori immobiliari sono raddoppiati in poco più di un anno.
Nel documento finale del summit si pone grande attenzione «all'eccessiva volatilità dei prezzi delle commodities, in particolare degli alimentari e dell'energia, che crea nuovi rischi alla ripresa dell'economia mondiale». Si chiede fortemente la regolamentazione del mercato dei derivati sulle commodities e soprattutto la riforma del sistema finanziario per prevenire nuove destabilizzazioni dei mercati.

lunedì 9 maggio 2011

Buon lavoro

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Vi ringrazio per l'invio del vostro giornale. E' davvero un eccellente esempio di stampa libera e intelligente. Quando lo ricevo, sempre lo giro ad amici e conoscenti. Che ogni volta me ne ringraziano. Spero che continuerete a inviarmelo. Un augurio sincero di buon lavoro e di buona fortuna.

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Gian Biagio Conte

Scuola Normale Superiore di Pisa

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Carissimo e chiarissimo professor Conte, le Sue parole ci onorano e motivano grandemente ad andare avanti. Le siamo infinitamente grati del Suo apprezzamento e incoraggiamento. Un cordiale saluto, con ammirazione e gli auguri più cordiali. La red dell'ADL