lunedì 16 giugno 2008

Non sono pratico di teologia cristiana, ma...

Lettera

Non sono pratico di teologia cristiana... Ma un Capo di governo dovrebbe essere laico nei suoi comportamenti... Altro se si fosse trattato un incontro privato, senza alcuna valenza politica. Come affiliato di un'associazione ne segue i riti ed è quindi un problema esclusivo suo, di coscienza e scelta individuale. Ma come rappresentante di uno Stato laico e di tutti i cittadini deve rispettarne le regole scritte, la Costituzione, e quelle non scritte. Altrimenti bisognerebbe dire che viviamo in uno stato teocratico, esattamente com'era lo Stato della Chiesa prima dell'Unità o come sono gli stati "canaglia" islamici, quando fa comodo denigrarli ed attaccarli seguendo la scia dell'amico Bush

E quello che stride in tutto questo è che certe critiche arrivino dall'interno della stessa Chiesa e non dall'opposizione in parlamento e nel Paese. Veltroni e Rutelli sembrano in tutt'altre faccende affaccendati, fra teocon da una parte e antisocialisti dall'altra, più intenti al sadomasochismo di tafazziana memoria che alla realtà quotidiana. Si litiga e si discute sul futuro Parlamento europeo, mettendo in evidenza che loro col socialismo non vogliono averci a che fare. E, forse, questa è l'unica parola chiara in tutto questo bailamme, mentre il resto sembra aria fritta e fumosa per nascondere sotto il tappeto l'ennessima spazzatura casalinga. Si parla stavolta del deficit di 9 milioni di euro del Comune di Roma che tanti imbarazzi starebbe dando a tutti quanti, maggioranza ed opposizione, in attesa di trovare la solita soluzione compromesso che farà pagare a tutti noi la demagogia e l'arroganza di chi sta governando l'Italia da oltre un ventennio.

Molti, An e la Lega soprattutto, vorrebbero sputtanare Veltroni e indicarlo come il responsabile del fallimento capitolino, Letta però è ben consapevole che senza l'aiuto dell'opposizione i provvedimenti sulla sicurezza, sull'economia, sulle intercettazioni, sulla spazzatura napoletana non potrebbero essere accettati dai cittadini senza contraccolpi (e questo Di Pietro l'ha capito). Berlusconi ormai è fra l'incudine ed il martello, ha voluto stravincere alterando la percezione degli Italiani, convinto poi di poterli gestire, una volta arrivato al potere. Ma non pare essere così semplice perché la Lega, l'unica forza che può condizionarlo, ha la fottuta paura di perdere l'appoggio del suo elettorato se cede agli interessi del capo. Ci tiene alla sua immagine e quindi mette i paletti quando i dipendenti del premier tentano di far passare provvedimenti ad personam.

Intanto il debito pubblico aumenta, soldi in cassa non ce ne sono, ed ogni miglioramento della macchina pubblica, in tutte le sue componenti (sanità, giustizia, scuole, servizi sociali, ordine pubblico...) richiede investimenti che non possiamo più permetterci dato il costo del denaro in aumento ed il rating dell'azienda Italia in calo. Le promesse sono state tante e circostanziate, come quelle sull'Ici, sulla detassazione degli straordinari, sulla monnezza napoletana, le risposte per ora vaghe e generiche, occultando la verità e manipolando la percezione della gente tramite compiacenti mass media e politici d'accatto.

Prof. Nino Puliatti, Messina

venerdì 13 giugno 2008

Quegli esclusi dal banchetto

Proponiamo in anteprima l'articolo che verrà pubblicato sul prossimo numero del settimanale delle chiese battiste, metodiste e valdesi "Riforma". L'autrice è membro della Commissione globalizzazione e ambiente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI).

di Teresa Isenburg *)

A Roma dal 3 al 5 giugno 2008 si è tenuta la Conferenza sulla sicurezza alimentare mondiale: le sfide del cambiamento climatico e della bioenergia, mentre in parallelo (e non in contrapposizione) dal 1° al 4 giugno ha avuto luogo "Terra preta": forum su crisi alimentare, cambiamento climatico, agrocarburanti e sovranità alimentare. Alla prima, conclusasi con una Dichiarazione, erano presenti capi di stato e di governo di 180 stati, al secondo, terminato con una Piattaforma per un'azione collettiva, esponenti di
800 movimenti sociali e forme organizzate del mondo contadino.

Nell'ultimo anno le rivolte del pane, del riso, della tortilla in oltre 30 paesi spaventano non poco l'establishment, hanno spinto già 28 governi a porre restrizioni alle esportazioni alimentari e impongono di riflettere su quanto è stato fatto nell'ultimo quarto di secolo. È difficile infatti non vedere una correlazione fra le scelte di liberalizzazione commerciale e finanziaria e il tracollo della piccola agricoltura per i mercati locali sottoposta al venire meno di investimenti e sostegno tecnico e alla concorrenza delle derrate importate a bassi prezzi grazie a sovvenzioni (circa $ 380 miliardi all'anno nei paesi ricchi). In Africa occidentale, ad esempio, il Mali e il Senegal importano l'80% del riso, in particolare da Thailandia e Vietnam; il Messico dal 1994, dopo l'entrata in vigore dell'accordo commerciale del Nord America (Nafta) è diventato importatore; Haiti importa il 100% del frumento e il 75% del riso e gli esempi si possono facilmente moltiplicare. In realtà nelle quali fra il 70 e il 90% (in Europa ci si aggira fra il 15 e il 20%) dei redditi famigliari sono assorbiti dal cibo (e questa situazione riguarda 2,2 miliardi di persone) qualunque aumento fa precipitare le situazioni. E come è noto nel giro di un anno i prezzi internazionali sono cresciuti del 130% per il frumento, del 74% per il riso e del 31% per il mais e, attraverso la dipendenza dalle importazioni, gli aumenti si sono abbattuti come una mannaia su uomini, donne e bambini poveri.

Da anni la FAO denuncia la inadeguatezza delle riserve, ma, come ha detto il segretario generale della FAO Jacques Diouf, non vi è stato ascolto fino a quando "gli esclusi dal banchetto dei ricchi non sono scesi in strada". Anche le organizzazioni contadine avvertono da tempo delle nubi che si sono andate accumulando: lo scardinamento del plurisecolare modo di vita contadino ha trasformato milioni di uomini e donne legati alla terra in braccianti o salariati indebitati sbalzati dal loro mondo di riferimento: in meno di un decennio nei villaggi indiani i suicidi di contadini hanno superato la soglia di 150.000, con una protesta silenziosa e disperata; altrove un infinito corteo di persone a cui è stata depredata la speranza si muovono per sprofondare negli slums urbani, mentre è riconosciuto che le forme più assolute di miseria sono nelle aree contadine tradizionali abbandonate dalle autorità.

Sui motivi dell'impennata dei prezzi alimentari sembra ormai esserci una discreta convergenza di opinioni: una certa crescita della domanda per miglioramento economico (Cina, India) e insufficienza del rifornimento locale, insieme a perdite per avversità climatiche giocano, ma per una parte limitata. Forte invece è l'effetto speculativo: dopo la crisi dei mutui immobiliari statunitensi molti capitali si sono spostati, puntando in particolare sui futures drogati dalle prospettive degli agrocombustibili, sulla borsa valori dei prodotti (commodity) di Chicago dove vengono fissati quasi tutti i prezzi alimentari: secondo la Banca Mondiale la speculazione è responsabile del 37% degli aumenti. La produzione di etanolo negli Usa è un secondo fattore: nel 2007 1/3 (138 milioni di t) del raccolto annuo di mais è stato distillato: secondo dirigenti del Fondo Monetario ciò ha determinato il 40% degli incrementi delle derrate. La curva verticale del petrolio incide molto, sia per gli additivi chimici lungo la filiera sia per i trasporti. Concorde è anche la constatazione del declino delle agricolture famigliari, non più seguite dalla grande maggioranza dei governi in ottemperanza degli orientamenti economici prevalenti.

Quali le linee che emergono dai documenti prodotti negli incontri romani? Due parole sintetizzano le differenze: la FAO parla di sicurezza alimentare, il mondo contadino organizzato di sovranità. La FAO vede interventi a breve termine con aiuti e la revisione, sul medio/lungo periodo, delle politiche di sostegno a piccoli produttori, anche se subito dopo auspica una poco conciliabile rapida conclusione dell'agenda di Doha del WTO per la liberalizzazione; ricorda poi l'importanza della biodiversità (cosa positiva, verrebbe da dire, dato che almeno l'amaranto e la quinoa non sono quotati alla borsa di Chicago...), la necessità di contemperare i biocarburanti con la sicurezza alimentare e il risparmio energetico con l'ampliamento dei commerci: un documento, è evidente, frutto di molte mediazioni, non sottoscritto da tutti i paesi, ma da non disprezzare: in un mondo così violentemente bruciato dalle guerre, ogni segno di confronto multilaterale va coltivato come una pianta preziosa. Nel testo del versante contadino l'accento è posto sull'agricoltura famigliare per il mercato interno, con alcuni punti interessanti e operativi, come inserire anche quel settore nelle trattative per Kyoto dopo il 2012 (30% delle emissioni di CO2 proviene dall'agro-zootecnico); naturalmente molto critiche sono le posizioni sulla liberalizzazione e finanziarizzazione del settore agricolo commerciale e sui rischi dell'energia vegetale. Entrambi
evitano il tema delle sementi transgeniche e anche questa è una buona notizia assieme al fatto che dopo decenni si ritorna a parlare di agricoltura materiale che produce cibo e non solo di quella virtuale dei listini di borsa.

Che fare? A noi (io, tu, noi) che siamo in questa pasciuta parte del pianeta, oltre all'aiuto verso chi soffre, spetta di vegliare su quello che fa il nostro paese in materia di politica agricola, soprattutto nelle sedi internazionali (UE, contributi agli organismi internazionali, investimenti esteri) perché sono scelte che hanno conseguenze nel bene o nel male.

*) Commissione globalizzazione e ambiente della Federazione Chiese Evangeliche in Italia (FCEI)

Ai compagni socialisti

Lettera aperta
Il punto di caduta della sistema Prima repubblica sta nell’aver escluso dall’orizzonte della politica nazionale la fatica della revisione. Il nuovismo ha sconfitto il revisionismo. Nuove alleanze, nuovi patti di tribuna istituzionale, nuovi "programmi di governo" ci devono interessare poco o niente. Occorre invece un Referendum propositivo simile a quello dirimente e rivoluzionario che proposero Nenni ed i socialisti nel ’45. Oggi occorre dare al Parlamento europeo il potere legislativo sulle materie già di competenza comunitaria.

di Rino Formica *)

Care compagne e cari compagni, la Costituente socialista non ha retto alla prova del fuoco elettorale. Una prova ineludibile per chi voglia proporre al paese un’utile e chiara risorsa di governo (tale è stato sempre agli occhi dei lavoratori italiani il socialismo democratico e riformista) e non solo una testimonianza politica e ideale. L’iniquità della legge elettorale combinata con l’insolenza dell’appello al voto utile spiegano solo in parte l’assai magro risultato. Né interessa qui disquisire sul deficit di leadership politica o sulla debolezza dell’attuale gruppo dirigente, quando ha voluto caricare il peso eccessivo delle ambizioni personali sulle fragili spalle di una proposta politica che alcuni di noi voleva larga ma che altri invece hanno ristretto dentro le antiche pratiche del carrismo, questa volta legando le scarse forze dei socialisti non tanto a una prospettiva politica ma a un personaggio, Romano Prodi. Se si aggiungono le passate compagnie radicali, certamente affini ma non organiche alla storia del socialismo italiano, che hanno costretto la proposta socialista dentro il mono-tema del laicismo, una maschera di ferro applicata alle potenzialità e alla vitalità del socialismo italiano, come si erano espresse dal Midas in poi nelle forme della “questione istituzionale”, diventa ancor più chiara la lettura della crisi della Costituente socialista.

L’elemento che rende incerto non solo il quadro politico ma quello democratico è costituito dalla quasi assenza di voci che reclamano l’urgenza della “questione istituzionale”, vale a dire la necessità e la priorità di rimetter mano al patto costitutivo, al suo nucleo centrale, al principio fondante dal quale partì l’opera della Carta costituzionale. Non stiamo quindi parlando di ordinaria manutenzione. Stiamo ponendo il tema della straordinaria revisione. E se ci fu nel lavoro costituente un punto di partenza da riprendere, non per una eccentrica volontà di “ridiscutere tutto” ma per leggere dentro la storia della Repubblica senza lenti ideologiche, decifrarne le contraddizioni e ricercare le soluzioni, quel punto di partenza va ricercato nell’ordine del giorno Perassi nel quale veniva detto che “La seconda sottocommissione, ritenuto che né il tipo di governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare“. Nel quale Odg l’opzione parlamentare è da preferire alle altre non per un giudizio di valore ma in quanto corrispondente alla democrazia compromissoria che solo il sistema parlamentare poteva sostenere.

La domanda oggi è: quel principio da cui partì la Costituente, con l’adozione del sistema parlamentare, che aveva le sue ragioni nel compromesso di due sistemi politico-ideologici cui corrispondeva la divisione del mondo in campi contrapposti, regge ancora il peso dello stravolgimento degli equilibri di potenza e della scala dei valori ideologici e culturali in atto?

Non c’è dubbio che la Carta costituzionale è un capolavoro di unità, non esercizio di machiavellismo politico, cui si applicò una classe dirigente di prima grandezza e che non avremmo mai più avuto. Tenere assieme, formando una “comunità di visione”, la rappresentanza del comunismo internazionale, quella delle liberaldemocrazie occidentali vittoriose, la forza morale e politica della Chiesa cattolica, il ventre molle del conservatorismo nazionale, è stata operazione grandiosa. Non lavoro di banale compromesso, di sommatoria di elementi diversi, ma creazione in Italia di una via originale (la “terza via”) alla formazione della base democratica e alla governabilità.

Ritorniamo alla domanda iniziale: perché la crisi irreversibile della Costituente socialista? Abbiamo detto delle ragioni della congiuntura politica, delle avversità, della gracilità del partito, dell’illusione di lanciare un progetto facendo leva sulla sua coerenza intrinseca, senza il supporto degli apparati, senza il consenso delle macro-strutture dei poteri. Ma c’è una ragione ancora più profonda che spiega l’esaurimento della Costituente, e questa sta nella realtà delle cose, nella fine definitiva dei partiti storici della repubblica.

In sostanza con la Costituente socialista si voleva ridare vita, in uno slancio sentimentale estremo, alla storicità (vale a dire alla necessità storica) del socialismo riformatore in un quadro politico nel quale la storia dei partiti s’è fermata, non c’è più e con essa le culture e, se vogliamo, anche le sotto-culture. Oggi sono rimasti i simulacri del vecchi partiti, solo maschere vagamente somiglianti.
Va subito però aggiunto che il mutamento della geografia dei partiti storici non è avvenuto solo per fattori esterni, per volontà occulta di poteri oscuri, è avvenuto perché è venuta meno nel ceto politico e nella società, in un momento particolare di passaggio epocale (la crisi del comunismo, l’affacciarsi della globalizzazione e, in Italia, l’urgenza di nuovi modelli di governabilità che poggiassero su un nuovo patto costituzionale), è venuta meno, dicevamo, l’intelligenza e la volontà di concepire per la politica nazionale una grande stagione di revisionismo.

Se vogliamo individuare il punto di caduta del sistema democratico della Prima repubblica, questo sta precisamente nell’aver escluso dall’orizzonte della politica nazionale la fatica di dar vita a una fase di revisionismo, sostituendolo con il più comodo e tradizionale nuovismo. Il nuovismo ha dunque sconfitto il revisionismo.

Eppure non mancano i precedenti. All’inizio della storia della repubblica ci sono stati slanci di grande e audace progettualità, eccome! Da parte dei socialisti per come hanno voluto la rupture dell’esperienza della monarchia. De Gasperi per come ha disegnato e perseguito il tracciato liberaldemocratico e laico (laicità concepita da un cattolico liberale come lui) per la giovane democrazia. I comunisti per come hanno amministrato l’utopia rivoluzionaria nella continuità della tradizione storica nazionale e dentro le regole del costituzionalismo. Da parte del terzismo cattolico dei “professorini” che con grande tenacia e visione ideologica configurarono quel particolare compromesso politico e sociale con la sinistra che ha dato forma allo Stato e al rapporto tra politica, società ed economia.

Qui sta l’origine e lo snodo delle contraddizioni, qui bisognerà ritornare non per gusto della storiografia, ma per necessità politica e per l’avvenire.

Tutta roba del passato? Tutti temi da vedere in una dimensione di riflessione storica? Oppure è vero esattamente il contrario, vale a dire è proprio da un ripensamento di quel terreno di culture politiche e ripercorrendo il fiume carsico che ha portato quei fondamenti e quei principi a ibridarsi con i passaggi materiali e forzosi di revisione costituzionale e a confrontarsi con la mappa dei nuovi poteri, dei nuovi centri di potere cresciuti dentro e fuori i confini nazionali; è da questo insieme di modernità e nello stesso tempo di indebolimento della dimensione della politica, di invecchiamento dei partiti che bisogna ripartire per un nuovo revisionismo, per un nuovo riformismo di sistema.

Dobbiamo ammettere che la sinistra entra nella fase discendente quando manca a questo confronto, non riuscendo a ripensarsi fuori dei confini della propria tradizione, considerando la propria storia nei termini statici di conservazione dei patrimoni e non di dinamismo politico, in cui le tradizioni più vitali sono quelle che con maggiore velocità intercettano le sfide della modernizzazione e ne assorbono i fermenti positivi.

Eppure dovremmo, noi socialisti, trarre lezione dal non lontano passato quando, dopo la prima grande scossa che rovinò direttamente sul sistema dei partiti democratici (ci riferiamo a Tangentopoli) vedemmo l’albero della furia giustizialista e non scorgemmo la foresta della crisi del sistema.

Chi meglio dei socialisti poteva, allora, sparigliare il gioco delle forze conservatrici immettendo nel circuito della democrazia bloccata la forza fluidificante della grande riforma (così dai socialisti chiamata e dagli altri derisa), della democrazia governante, come oggi affannosamente è denominata la forma moderna degli Stati?

Finì come sappiamo, con uno spostamento dell’asse politico a destra, cui contribuì lo stato maggiore ex comunista con la sua voglia di immettere il vino del nuovismo dentro le vecchie botti degli egemonismi e delle diversità.

Con l’inseguirsi delle leggi elettorali sempre più “alla carta” e a misura dello “stato di crisi”, è stato il trionfo del trasformismo, del falso bipolarismo che ci ha portato alle paludi di questi tempi, in cui (lo diciamo con tristezza) tre livelli di potere uniti, governo, opposizione e massimo garante, riescono a mala pena a tirare la carretta di una governabilità decente.

Non c’è chi non veda, a fronte di questo quadro, le ragioni della inevitabile caduta e la inadeguatezza della Costituente socialista.

Come e da dove ripartire? E’ evidente che una forza politica, benché ridotta nelle dimensioni e nel peso politico, non può rinunciare a battere il terreno della lotta politica nelle condizioni che la congiuntura impone. E la situazione mostra, a sinistra come a destra, processi di ristrutturazione profonda, sul versante del Partito democratico e della Sinistra radicale, rispetto ai quali i socialisti dovranno trovare forme e strumenti di intervento non minoritari, flessibili, adattabili a situazioni di grande fluidità e soprattutto con una iniziativa audace diretta al cuore della crisi.

Il socialismo italiano interromperà la sua fecondità, questo deve esser chiaro a tutti noi, se rinuncerà a sciogliere i nodi che stringono il Paese. Questi nodi si chiamano: riforma istituzionale, questione sociale e nuova laicità.

Della grande riforma istituzionale abbiamo qui cercato di delineare la dimensione sistemica e non tecnica entro la quale convogliare il confronto e abbiamo anche definito i confini della nuova laicità, da non chiudere nelle antiche dispute tra guelfi e ghibellini.
Anche per la questione sociale va ripreso il coraggio, va recuperato quello spirito audacemente riformista che alla metà degli anni Ottanta segnò con successo l’iniziativa socialista. Oggi come allora c’è uno spirito conservatore da battere, che si nasconde sotto la nostalgia di un’organizzazione del lavoro e di uno Stato assistenziale che appartiene al passato, a una fase nella quale la “classe operaia” è stata non soltanto categoria sociale e produttiva al pari delle altre ma categoria ideologica da usare come arma politica.
Per ragioni di brevità ricordiamo soltanto come i nuovi termini in cui oggi si pone in Italia e in Europa la questione sociale siano in debito con la stagione del riformismo socialista. Sempre per brevità diciamo che la questione sociale oggi si colloca in una dimensione larga, europea, al di fuori della quale c’è la resa senza condizioni alla deregulation selvaggia e a divisioni sociali sempre più acute. Ne sono consapevoli i sindacati? E’ concepibile la rappresentanza sindacale degli interessi compositi dei lavoratori saltando la dimensione sovra-nazionale delle leghe sindacali?

Questo è il terreno di rilancio del socialismo democratico italiano, questa la proposta che i socialisti devono porre alle forze politiche, in un momento in cui il sistema politico tutto è come un grande cantiere di costruzione e di rifondazione. Lo richiede la maturità della coscienza pubblica, la scomparsa del sistema dei partiti storici, delle culture politiche che hanno fatto la storia della democrazia repubblicana; è imposto dall’indeterminatezza dei partiti attuali, dalla moltiplicazione dei poteri, dalla stratificazione disorganica e confusa di questi, dall’irruzione potente e a volte prepotente dei poteri sovra-nazionali che, non incontrando sulla propria strada una forte statualità, entrano in contraddizione con i poteri propri della sovranità nazionale determinando non solo conflitti ma autentici ingorghi. A questo proposito condividiamo la proposta di Tremonti di dare al Parlamento europeo sulle materie già di competenza comunitaria il potere legislativo. E’ una proposta di trasparenza e chiarezza, impedirebbe intrusioni, sovrapposizioni e mediazioni burocratiche da parte di tecnocrazie piene di potere e vuote di rappresentanza.

E’ il solo modo, crediamo, di misurare la diversità strategica degli schieramenti politici a livello europeo (socialisti, popolari, liberali, conservatori) e la funzione concreta dei partiti sovra-nazionali. Oggi si distinguono sulla base delle logiche di appartenenza o del piccolo cabotaggio amministrativo; reggeranno l’urto delle grandi questioni epocali che confluiranno nel Parlamento europeo sotto forma di provvedimenti vincolanti e come si comporteranno i partiti europei di fronte al ridimensionamento con vincolo di legge degli interessi nazionali?

Chiediamo che su questa proposta i socialisti italiani aprano una discussione in sede europea e nazionale, per iscriverla non in un imprecisato calendario ma per inserirla all’ordine del giorno della prossima scadenza elettorale europea.

Cari Compagni e Care Compagne, l’esaurirsi della forza motrice della Costituente socialista, costringe i partecipanti al progetto ad una riflessione nell’ambito dei luoghi di provenienza.

E’ per questa ragione che non ho nulla da ridire se anche voi rientriate nell’ambito del vecchio SDI, con i suoi riti, con i suoi problemi e con le sue difficoltà.

Le ragioni di casa hanno sempre una precedenza, ma non possono costituire uno scopo, perché un partito è innanzitutto una comunità di visione che deve saper parlare a chi è fuori.

Nuove alleanze, nuovi patti di tribuna istituzionale, nuovi programmi di governo ci devono interessare poco o niente, perché i socialisti non possiedono la forza materiale, l’aggiornamento della dottrina dell’autonomismo creativo, e sono privi degli strumenti istituzionali per incidere nei programmi di governo.

Possono creare le condizioni di un nuovo e profondo rimescolamento delle carte tra i due schieramenti.
Proporre un Referendum propositivo simile a quello dirimente e rivoluzionario che proposero Nenni ed i socialisti nel ’45.

Allora si scelse tra monarchia e repubblica oggi è indilazionabile scegliere tra democrazia parlamentare e democrazia presidenziale.

L’esito di questo referendum porrà i problemi delle nuove garanzie democratiche, delle nuove leggi elettorali stabili e non esposte alle convenienze di occasionali maggioranze, di una rinnovata e più alta coesione sociale e di un forte rilancio degli interessi nazionali nella Comunità Europea. Buon lavoro e speriamo in un arrivederci. (12 giugno 2008)

*) Presidente dell'Associazione "Socialismo è Libertà", già parlamentare e ministro

mercoledì 11 giugno 2008

Futuro vo' cercando

Una storia in presa diretta: un ragazzo di Portici ci racconta la sua storia di giovane precario alla ricerca di un lavoro. Al sud come al nord il bisogno di sicurezza si scontra con un’amara realtà.

di Fabio De Rosa *)

Quando hai in famiglia qualcuno che ha già lasciato Napoli è molto più facile, semplice perché basta seguirlo, perché sicuramente ti darà ospitalità, perchè ti aiuterà quando non conosci niente e nessuno.

Se dovessi esprimere una ragione del perché mi sono trasferito a 900 km da Napoli barrerei la casella vicino alla parola lavoro, ma ci aggiungerei: contratto, busta paga, ferie, malattia,contributi e quanto altro è un normale regolare lavoro.

Quando questo diventa l’eccezione si può decidere di vivere un anno della propria vita nella provincia anonima del Nord Italia lavorando in una fabbrica di merendine a cioccolato piuttosto che in una di antine in legno o ancora di cucine componibili o segnare per sempre la propria arcata sopraccigliare con 6 punti di sutura per diventare per 3 mesi una tuta blu, quelle che hai sempre visto in tv durante gli scioperi per il rinnovo contrattuale.

Diplomato all’istituto tecnico a Scampia e deciso a non seguire i compagni di classe andati ad ingrossare le file dei soldati di professione per sfuggire a quelle delle liste di disoccupazione, avevo bisogno di attestare a me stesso ed agli altri che occupavo un posto nella società quello di lavoratore non importa dove né per quanti soldi, ma volevo avere un lavoro di quelli veri con tanto di contratto, di livello, qualificato non come volantinatore o come agente porta a porta di contratti telefonici.

Ma tutto passava per le agenzie interinali che sollevano il datore di lavoro dall’onere di mantenere i rapporti con il lavoratore: non vieni licenziato o assunto ma semplicemente il tuo contratto viene rinnovato o meno.

Rispetto alla situazione campana e di tutto il Sud Italia sembrerebbe una sorta comunque di avanzamento, poiché nelle nostre zone un lavoro regolare è spesso una chimera.
La tutela dei diritti che dovrebbe essere rappresentata da quel contratto è, però, in realtà fittizia poiché essi vengono sistematicamente scavalcati dal ricatto del rinnovo della prestazione lavorativa. Vendi la tua forza lavoro al miglior offerente, quando il mercato lo richiede in periodi già prestabiliti che sono dettati da picchi di produzione o in prossimità di chiusura degli ordini delle fabbriche.

La condizione di ricattabilità è forte e presente al Sud ma anche al Nord seguendo strade molto diverse che però hanno il medesimo scopo: aggirare l’intero apparato di tutele e diritti conquistati a caro prezzo nel passato attraverso il ricatto che ricade sulla tua scelta di vita, sul tuo futuro, su i tuoi sogni e desideri.

La legge 30 pone una questione morale sopra tutte: quella della dignità di ogni individuo di percorrere la propria strada scegliendo lui cosa è meglio per se stesso.
Il lavoro non è semplicemente un problema di salario ma è il diritto indiscusso di dover lavorare per vivere e non di vivere, e ogni giorno morire, per lavorare!

*) Cgil - Articolo 1

LA DERIVA SECONDO LA BANCA D'ITALIA

Spigolando tra le 350 pagine della Relazione Annuale presentata dal governatore Draghi in occasione dell’assemblea di Bankitalia si scopre che i mali della Penisola sono sempre quelli. Ma peggiorati.

di M. Sironi

Nel 2007 gli italiani hanno lavorato di piu’ per guadagnare gli stessi stipendi, hanno cominciato a "tirare la cinghia" non in senso figurato, hanno dovuto risparmiare di meno, rifugiandosi nei Bot, e gli scappa sempre piu’ spesso di emettere assegni a vuoto (naturale quindi che una buona fetta del Paese resti tenacemente attaccata ai pagamenti in contanti). E' il ritratto del Bel Paese che emerge dalla Relazione Annuale della Banca d’Italia, presentata il 31 maggio in occasione dell’assemblea dell'istituto centrale.

Se le "Considerazioni Finali" del governatore Draghi si segnalano per il sereno equilibrio con cui delineano problemi e soluzioni, l’allegato tomo di 350 pagine parla con la franchezza dei numeri, e non ne esce un bel ritratto.

Dunque, nel 2007 l’occupazione in Italia e’ aumentata ancora (+1% il numero degli occupati), ma essenzialmente perche’ la riforma delle pensioni ha trattenuto piu’ italiani sul posto di lavoro (mentre ad esempio diminuiscono gli studenti lavoratori). Quanto alle retribuzioni, l’incremento e’ stato del 2,1%, ma le retribuzioni reali (cioe’ deflazionate in base all’indice dei prezzi al consumo) sono salite solo dello 0,2%. Ma poiche’ la produttivita’, come e’ arcinoto, sta calando da dieci anni, il fattore lavoro e’ passato nel mix del valore aggiunto dal 63% al 64,5%: come dire che gli italiani per guadagnare lo stesso stipendio devono lavorare di piu’.

Nessuna sorpresa quindi se nello scorso anno la spesa delle famiglie italiane per i beni non durevoli (cioe’ la classica spesa della settimana al supermarket, tra cui alimentari e bevande) e’ scesa dello 0,3%. In Italia si comincia a tirare la cinghia, anche se la cifra dedicata all’acquisto di computer, telefonini e comunicazioni in genere e’ salita del 6%.

Ma si risparmia anche sul risparmio, che una volta era l’arma segreta della nostra economia, perche’ la propensione delle famiglie a mettere qualche soldo da parte ha confermato il suo calo costante, passando dall’11,5% del 2006 all’11,2% del 2007. La consistenza complessiva del risparmio (52 miliardi) e’ ora pari al 3,4% del Pil (nel 2006 era il 4,6%).

Visto l’andazzo delle borse, tranquillizza sapere che oggi gli italiani sono tornati ai bot e depositi bancari, tralasciando gli investimenti piu’ a rischio come azioni e fondi comuni, tanto che nello scorso anno le vendite nette di quote di fondi hanno raggiunto i 35 miliardi di euro. Non si arresta invece la marcia verso gli strumenti di pagamento piu’ evoluti: nel complesso l’utilizzo dei sistemi di pagamento elettronico e’ salito del 6,6%, pur restando ben al di sotto della media europea, mentre il numero degli assegni emessi si e’ specularmene ridotto del 6%.

Ma fa scalpore il forte incremento (+26%) degli assegni iscritti al CAI (Centrale Allarme Interbancaria) perche’ senza copertura o a firma falsa. Cresce anche il numero delle carte di credito revocate perche’ senza copertura. Sono invece diminuite, nel settore, le frodi dopo i picchi del 2006.

Se il 58% degli assegni iscritti al CAI riguarda il Sud e le Isole, la differenza tra Nord e Sud viene rimarcata anche dalla tendenza delle famiglie ad utilizzare la cartamoneta, tendenza piu’ diffusa nel Mezzogiorno dove anzi appare in aumento: nell’arco del 2006 la quota di spesa per contanti sugli acquisti di beni di consumo e’ passata dal 58% al 61%. Tra le ragioni indicate dalla Relazione, il timore di frodi e l’ampia diffusione dell’economia sommersa. E chi e’ andato al cinema a vedere "Gomorra", premiato a Cannes, intuisce che cosa questo possa significare.