lunedì 27 giugno 2011

Superato l'art. 18, azzerata la precarietà?

Il dibattito economico

riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

Dialogando con Fassina e Alleva su MicroMega, Ichino aveva rilanciato il suo progetto di riforma del mercato del lavoro all'insegna dello slogan "Tutti a tempo indeterminato, nessuno inamovibile". Ricetta efficace contro la precarietà? Renato Fioretti interviene (qui e su MicroMega) con una mole notevole di argomenti, alcuni dei quali introducono elementi di novità nel dibattito in corso .

 

di Renato Fioretti

 

Da alcuni mesi, mi ero imposto di evitare ulteriori commenti e valutazioni sul ddl 1481/09 (del senatore Ichino). Lo ritenevo un tema ampiamente e sufficientemente dibattuto e - dal punto di vista dell'interesse di tipo giornalistico - già, sostanzialmente, "archiviato".

    Non avevo previsto che esso potesse (prepotentemente) tornare "alle luci della ribalta" attraverso una lettera-aperta di Joseph Fremder, Segretario nazionale di un sindacato autonomo dei bancari e, soprattutto, grazie ad un dibattito su "Le vie d'uscita dalla precarietà" - presente nel numero in edicola di "Micromega" - tra Pietro Ichino, Stefano Fassina e Piergiovanni Alleva.

    Premetto, però, di riprendere la discussione sulla taumaturgica formula del "Tutti a tempo indeterminato, nessuno inamovibile", per due ordini di motivi.

    L'uno, perché esplicitamente "chiamato in causa" dallo stesso Ichino; l'altro, perché stimolato dall'interessante "triangolare".

    Sul primo punto: il senatore Pd, nel controreplicare a una lettera aperta del Segretario nazionale della Falcri-Silcea - rispetto all'accusa secondo la quale la legge 30/03 avrebbe aumentato il precariato - afferma: "Anche Fioretti, un altro nemico giurato della legge Biagi, ha tentato di rispondere, ma col risultato di confermare analiticamente l'esattezza della mia affermazione; la legge Biagi non ha alcuna responsabilità nell'aumento del precariato nel nostro Paese".

    Naturalmente, anche se tale dichiarazione meriterebbe (per l'ennesima volta) di essere contestata nel merito, in quest'occasione eviterò di farlo. Avverto solo l'esigenza di rilevare che il confronto che si sviluppò tra di noi, nel novembre dello scorso anno - grazie all'ospitalità offertaci dal sito web di "Micromega" - fu, da parte mia, tutt'altro che "un tentativo di risposta".

    Rappresentò, piuttosto, l'analitica illustrazione, "punto per punto", dei motivi che, ancora oggi, mi inducono a considerare il decreto legislativo 276/03 - e non la legge 30/03, "evocata" da Ichino quale legge "Biagi" - un vero e proprio "Supermarket delle tipologie contrattuali".

    Uno strumento attraverso il quale sono state rese più precarie alcune forme di rapporti di lavoro già esistenti (in particolare: somministrazione a tempo determinato, somministrazione di lavoro per soggetti svantaggiati e disabili, modalità di cessione di ramo d'azienda e part-time) e istituite nuove tipologie contrattuali, altrettanto precarie, (somministrazione a tempo indeterminato e contratto d'inserimento).

    Anzi, a questo proposito, sarebbe auspicabile che il senatore Ichino si sforzasse di esplicitare con maggiori e migliori argomentazioni i motivi che, incredibilmente - nel corso del nostro contraddittorio - lo inducevano a sostenere: "La norma sulla cessione di ramo d'azienda si colloca in tutt'altro capitolo" (rispetto all'aumento del precariato) e "Quello del part-time è tema del tutto diverso da quello del lavoro precario"!

    Queste sì che sono affermazioni tendenti a negare anche l'evidenza!

    Allo scopo, rispetto al giudizio sulle conseguenze prodotte dalla 30/03 e dal 276/03, mi conforta rilevare di essere in numerosa e qualificata compagnia.

    Tra gli altri, già nel 2006 (intervista a "Il Manifesto", del 17 febbraio), Piergiovanni Alleva affermava: "Vi sono, però, leggi non meno importanti dello Statuto, che la legge Maroni, o altri interventi legislativi del Centro-Destra, hanno stravolto, come la legge 230/62 sui contratti a termine e il Dlgs. 61/2000 sul part-time. O hanno abrogato, come la fondamentale legge 1369/1960 che fissava un principio base di ordine pubblico del lavoro".

    E ancora: " Pietro Ichino ha presentato una tesi polemica, semplice, ma insidiosa", secondo la quale la legge "Biagi" avrebbe cambiato poco o nulla in materia di precarietà e mercato del lavoro.

     "E' vero l'esatto contrario (sosteneva Alleva) e non si può concedere all'Autore neanche l'attenuante dell'insufficiente informazione. Si tratta, infatti, di un giurista specializzato, ben addentro al dibattito di politica del diritto"!

    Inoltre - per rispetto nei confronti di Marco Biagi e per tentare di porre fine a un'inutile querelle - è opportuno evidenziare che, in effetti, è letteralmente sbagliato pretendere di difendere la legge "Biagi" dall'accusa di aver prodotto un aumento della precarietà! 

    Lo ritengo (testualmente) inesatto perché la 30/03 (sistematicamente richiamata quale legge "Biagi"), come noto, è una legge-delega e, in quanto tale, rappresentò soltanto un insieme di "linee d'indirizzo" cui il parlamento delegava il governo. Il tutto, a distanza di ben undici mesi dal vile attentato delle Br!

    E' quindi evidente che, se c'è da difendere un provvedimento di legge dall'accusa di aver prodotto un aumento della precarietà, si tratta - senza alcun dubbio - del decreto legislativo 276/03!

    Decreto emanato a distanza di diciotto mesi dalla morte di Biagi!

    Certo, questo non significa disconoscere a Marco Biagi la sostanziale "paternità" sui provvedimenti adottati dai governi di centrodestra in materia di lavoro; si tratta, piuttosto, del tentativo di rappresentare quanta strumentalizzazione politica sia sottesa all'uso indiscriminato del suo nome.

    Infatti, anche se profondamente convinto che - dalle disposizioni previste dal 276/03 al recentissimo "Statuto dei lavori" - oggi siamo nella condizione di certificare la grande capacità mostrata dal Legislatore nazionale nel tradurre in norme di legge i principi illustrati da Biagi nel 2001 (attraverso il "Libro bianco"), ritengo che ogni volta che si (s)parla di precarietà, abbinare a essa - in una sorta di collegamento automatico - Marco Biagi, piuttosto che il ministro (all'epoca in carica) Maroni, rappresenti un'inutile e strumentale forzatura.

    La sensazione, anzi, la (personale) certezza, è che si utilizzi il nome del giuslavorista bolognese per comunicare - urbi et orbi - che criticare i contenuti del Libro bianco, della 30/03 e, ancora di più, del decreto 276/03, corrisponda a offendere il ricordo e infangare la memoria di Marco Biagi.

    Niente di più falso e strumentale.

    Personalmente, rivendico il diritto di contestare le idee e le proposte di Marco Biagi, senza, per questo, dovermi sentire nella meschina condizione cui vorrebbe relegarci Sacconi attraverso il suo macabro anatema: "Il nome di Marco Biagi peserà come una maledizione su coloro i quali volessero cancellarne l'opera o la memoria"! Quasi che, criticare, proporre di modificare o, addirittura, abrogare una legge (impropriamente e strumentalmente, evocata sempre come legge "Biagi") possa corrispondere a un deicidio!

    Duole, quindi, rilevare che siano ancora tanti coloro i quali si rendono (anche inconsapevolmente) partecipi di strumentalizzazioni dal carattere esclusivamente politico.

    In questo senso, a onor del vero, lo stesso Ichino non è esente da critiche quando, nel replicare al segretario della Falcri-Silcea - per difendere la legge "Biagi" - lo invita a non ripetere "l'errore in cui è caduta la sinistra politica e sindacale in questi otto anni: quello di demonizzare una legge che non ha alcuna responsabilità nell'aumento del precariato nel nostro Paese. Anche perché sulla base di quell'errore si è sparso il sangue di una persona".

    Un "inciso", quest'ultimo, assolutamente "gratuito" e fuori luogo. Impropriamente (e irresponsabilmente) teso - a mio parere - ad associare qualsiasi (legittima) posizione di dissenso all'atto di barbarie prodotto il 19 marzo del 2002! Così come, d'altra parte, aveva già (subdolamente) fatto Sacconi nei confronti di Cofferati. 

    Tra l'altro, al riguardo, sarebbe opportuno tenere presente che, nel nostro Paese, il riferimento alle leggi è sempre avvenuto attraverso il loro numero cronologico (rispetto all'anno di approvazione) e/o - in alternativa - richiamando il ministro o il "presentatore" di turno.

    Senza andare troppo a ritroso, è sufficiente rilevare che ciò è stato fatto con la legge "Treu" (ministro del lavoro in carica), con la "Bossi-Fini" (idem), con la legge "Calderoli" (anche se, giustamente, meglio nota come legge "porcata"), con la riforma "Gelmini", ecc.

    Perché, quindi - per concludere su questo punto - insistere con la "Biagi", se non per perpetrare l'uso distorto e strumentale che, del nome dello studioso spietatamente ucciso, è stato fatto dagli esponenti del centrodestra? 

    L'altro motivo, che m'induce a riprendere la discussione sulla proposta Ichino, è rappresentato da alcuni problemi "di merito" che il confronto ospitato da "Micromega" ha avuto il notevole pregio di (prepotentemente) riproporre. 

    Mi riferisco, in particolare, all'esigenza di operare una sorta di "ricapitolazione" della sostanza del problema: cosa è la precarietà, qual è la condizione di coloro che la vivono, l'ipotesi Ichino risolve il problema o, piuttosto, servirebbe qualcosa di diverso?

    In questo senso, se le note (difficili e generalizzate) condizioni professionali e sociali denunciate da milioni di lavoratori - costretti (come iconograficamente ama rappresentarli Ichino) in regime di "apartheid" - offrono già un'esauriente risposta alle prime due domande, si può tranquillamente rappresentare che cosa significhi, in estrema sintesi, vivere una condizione di precarietà.

    Una situazione lavorativa condizionata da un termine di scadenza (della stessa) già noto, o, comunque - anche se in assenza di un termine prefissato - dall'assoluta impossibilità di un minimo di garanzia circa la (pur minima e/o eventuale) continuità della prestazione professionale offerta!

    Senza dimenticare che - in virtù della tipologia contrattuale "scelta" dal datore di lavoro - ci si può trovare anche di fronte ad "aggravanti" di notevole entità (senza diritto a ferie retribuite, alla tutela della malattia, a una previdenza "sufficiente", ecc.).

    E', quindi, evidente che la condizione di precarietà lavorativa - tanto quella vissuta dalla stragrande maggioranza degli "atipici", quanto quella di molti subordinati "non standard" (a tempo pieno e indeterminato) - finisce per accompagnarsi a una situazione di altrettanta "instabilità" familiare e sociale.

    In un contesto di questo tipo, la soluzione può - oggettivamente - essere rappresentata dalla formula del: "Tutti a tempo indeterminato, nessuno inamovibile", tanto cara al senatore Pd?

    Altrimenti detto: fermo restando che l'ipotesi Ichino continuerebbe a non garantire nulla circa la continuità temporale dei rapporti di lavoro - anzi, per i pochi che avrebbero potuto goderne, verrebbero meno le garanzie (attualmente) offerte dall'art. 18 dello Statuto - è credibile che i guasti prodotti dalla precarietà siano miracolosamente risolti grazie all'istituzione di un indennizzo economico e di un sostegno "alla danese", in caso di licenziamento?

    O, piuttosto - come sosteneva Eugenio Scalfari già nel 2006 - si tratta di una costruzione ideologica? Grazie alla quale "Questo tipo di riforme in realtà rendono impossibile il riformismo, accentuano il conflitto sociale e politico, si configurano infine come vere e proprie controriforme condotte all'insegna dell'antipolitica e di opzioni di natura tecnocratica" (in "La terapia che vuole dissolvere la sinistra", La Repubblica, 18.01.2006)?

    Tra l'altro, a proposito di protezione "alla danese" - o a livello di qualunque altro paese europeo (spesso richiamati dal senatore Pd) - in ossequio a quell'onestà intellettuale cui, sovente, lo stesso invita i propri interlocutori, sarebbe opportuno che Ichino, nel "reclamizzare" - soprattutto presso i giovani - il suo progetto, alternativo alla situazione presente nel nostro mercato del lavoro, riportasse anche due elementi di non trascurabile importanza. 

    Il primo, costituito dal fatto che, contrariamente a quanto si è (per tanto tempo) cercato di far credere agli italiani, l'ultimo "Rapporto sull'occupazione in Europa" rileva che il "grado di rigidità normativa" - che regola i rapporti di lavoro - è, in Italia, più basso di quello presente in molti dei paesi europei più avanzati.

    Il secondo elemento - anch'esso indispensabile, ai fini di una corretta informazione - è rappresentato dalla non irrilevante circostanza che, negli altri paesi dell'UE a 27, non esiste nulla di paragonabile al "gran bazar" delle tipologie contrattuali presenti in Italia!

    Quindi, se è vero (perché "certificato") che - nonostante la presenza, nel nostro ordinamento, della tutela prevista dalla (vituperata) "giusta causa" - il grado di rigidità normativa presente in Italia è inferiore a quello di molti altri paesi europei, diventano stucchevoli le ricorrenti accuse, mosse all'art. 18 dello Statuto, rispetto al "nanismo" delle imprese e, addirittura, al "freno" nei confronti dell'occupazione.  

    Tra  l'altro, rispetto al tema dell'incremento o meno dell'occupazione, è interessante rilevare che - di là dai proclami governativi che hanno contrassegnato gli anni successivi all'entrata in vigore del 276/03, secondo i quali in Italia l'incremento dell'occupazione aveva superato il milione e mezzo di unità - dall'ultimo trimestre 2003 al corrispondente trimestre del 2007, prima che la grande crisi economica e finanziaria sconvolgesse l'Europa, nel nostro Paese il "Padre di tutti i decreti" aveva prodotto un incremento dell'occupazione pari ad appena 864 mila unità!

    Con un tasso di disoccupazione solo "formalmente" calato dell'1,7 per cento, perché, in effetti, determinato da circa 400 mila soggetti che, "scoraggiati", avevano abbandonato la ricerca attiva di un'occupazione. Senza contare che al 1° gennaio 2004, secondo i dati Istat: " Con la legge 189/02, per l'emersione del lavoro irregolare prestato da cittadini extracomunitari presso le famiglie, è stata sanata la posizione di 316.489 immigrati; mentre con la legge 222/02 le imprese hanno ufficializzato la presenza di 330.340 immigrati che lavoravano in nero"!

    In realtà, il motivo grazie al quale, negli altri paesi europei - anche in quelli evocati da Ichino - non esistono lavoratori di serie A e di serie B, non è (certamente) rappresentato dall'assenza di una norma corrispondente al nostro (ormai) famigerato art. 18, quanto, piuttosto, da scelte di politiche del lavoro nettamente diverse da quelle adottate - in particolare negli ultimi dieci anni - in Italia.

    Prima, tra tutte, l'illusione che le (fallimentari) politiche neo-liberiste - realizzate dai governi di centrodestra, in tema di lavoro - potessero (genericamente) limitarsi ad assecondare il mitico "mercato", offrendo ai datori di lavoro le più ampie possibilità di scelta delle modalità attraverso le quali chiedere ai lavoratori di offrire la propria prestazione lavorativa. Da qui, l'incomprensibile proliferazione (unica in Europa) delle tipologie contrattuali attualmente disponibili nel nostro Paese.

    Personalmente - considerata la situazione realizzatasi - continuo a essere convinto che: anche se la disponibilità di nuove (generalizzate e più "generose") forme di "ammortizzatori sociali" - di natura economica e di supporto per l'accompagnamento a un'altra occupazione - sarebbe opportuna e graditissima, al fine di superare senza eccessivi affanni eventuali periodi di "vacanza occupazionale", ciò non concorrerebbe minimamente a risolvere la condizione di precarietà nella quale, quasi sicuramente, ciascun lavoratore ricadrebbe una volta concluso il periodo di sostegno.

    A tal fine, per evitare il pur minimo rischio di esprimere "certezze" e per tentare di rendere "visibili" le condizioni oggettive di coloro i quali Ichino - giustamente - definisce "lavoratori di serie B", è (evidentemente) opportuno porsi qualche domanda. Soprattutto allo scopo di "smascherare" i tanti taumaturghi che accorrono al capezzale dei "precari" dopo aver ampiamente condiviso, sostenuto, difeso ed esaltato tutti i provvedimenti di legge che hanno concorso a determinare tali (sofferte) condizioni lavorative e professionali.

    Quindi, ipotizzando di operare in una condizione di proposta Ichino "a regime":

     a) quanti potrebbero (impunemente) sostenere che un qualsiasi lavoratore (impegnato, già da alcuni anni, presso un call-center, con un falso - perché in regime di sostanziale "subordinazione" - contratto di lavoro "a progetto") vedrebbe, miracolosamente e definitivamente, ridotto l'indice di precarietà del proprio rapporto di lavoro solo in virtù del fatto che, licenziato anche senza giusta causa, avrebbe titolo a un indennizzo economico, salvo, poi, ricadere di nuovo nell'identica condizione di precarietà?

    b) chi sarebbe in condizione di garantire a un precario "pubblico" (medico, ricercatore, professore, pompiere, ecc), in regime di collaborazione coordinata e continuativa già da diversi anni (situazione diffusamente attuale) - per coprire, tra l'altro, veri e propri "vuoti" di organico - che la sua condizione di precario sarebbe (magicamente) superata?

    c) chi potrebbe, tranquillamente, indurre un lavoratore (reiteratamente) "a tempo determinato" a non considerarsi più un precario, solo perché, se licenziato (anche senza giusta causa), titolare di un indennizzo economico? Soprattutto se lo stesso sarà stato (adeguatamente e correttamente) informato del - non insignificante - particolare che il suo rapporto a termine potrà avere, presso lo stesso datore di lavoro, una durata di ben sei anni; salvo poi, essere assunto - con la stessa o diversa tipologia contrattuale - da un altro datore di lavoro e "ricominciare il giro"?

    d) chi non proverebbe (almeno) un attimo di titubanza e/o smarrimento di fronte alla concreta ipotesi che un qualsiasi lavoratore possa ritrovarsi nella non invidiabile condizione di essere vittima di un licenziamento non "collettivo", non individuale "per motivi oggettivi", "per motivi disciplinari" o "per motivi discriminatori" - ben più ardui da dimostrare, di quanto tenti di far credere Ichino - ma, semplicemente perché, il datore di lavoro, senza che il giudice possa contestarne l'illegittimità, abbia ritenuto di assegnargli una (falsa) motivazione di carattere economico od organizzativo?  

    E', quindi, credibile che un contratto a tempo "indeterminato" (alla Ichino), unilateralmente risolvibile dal datore di lavoro in qualsiasi momento della sua vigenza, sia, in concreto, qualcosa di diverso - in termini di precarietà - da un qualsiasi rapporto di lavoro a termine "a scadenza variabile"?

    Se, come personalmente immagino e auspico, già queste prime domande dovessero trovare risposte univoche, è pensabile che Ichino non avverta il peso dell'enorme responsabilità - morale, oltre che politica - che si accolla nell'alimentare una vera e propria "guerra tra poveri", quando fa intravedere nella vigenza dell'art. 18 l'unico impedimento al superamento di quello che lui definisce "il dualismo del mercato del lavoro"?

    Se è vero - come lo stesso denuncia - che "Esistono interi comparti dell'economia italiana nei quali non si assume in forma regolare", che "Questa è una situazione di grave e diffusa illegalità, che andrebbe corretta applicando la legge come si deve" e, ancora, che "In una vasta zona del nostro tessuto produttivo il diritto al lavoro non c'è più", perché proporre (molto semplicisticamente, a mio parere) di "arrendersi all'evidenza"?  

    Di fronte ad una situazione di diffusa e palese violazione delle norme - determinata anche da una legislazione per lo meno molto "permissiva" (per usare un eufemismo) - che senso ha procedere con ulteriori "deregolamentazioni", piuttosto che pretendere l'irrinunciabile rispetto della legalità?


* * *


In estrema sintesi, posto che l'obiettivo indicato da Ichino - il superamento della condizione di apartheid nella quale versano i lavoratori da lui definiti "non garantiti", rispetto a coloro i quali, invece, sono tutelati dall'art. 18 dello Statuto - è certamente condivisibile, perché, pur in presenza di una legittima quota di flessibilità "numerica" (oltre che "funzionale"), non mettere in campo tutti gli strumenti possibili (normativi, ispettivi, incentivanti, repressivi, dissuasivi, ecc) per impedire la proliferazione e, soprattutto, l'improprio (e reiterato) ricorso alle (troppe) tipologie contrattuali attualmente disponibili?

    In questo senso, considerato che il senatore Pd afferma la verità quando sostiene che la maggioranza dei circa 900 mila lavoratori che hanno perso il posto di lavoro nel corso della grande crisi degli ultimi due anni sono quasi tutti collocati nell'area dei lavori di "serie B", perché non "fare della coerenza virtù" e riconoscere che sono le modalità attraverso le quali, da alcuni anni a questa parte, si accede - di norma - al lavoro, a determinare l'incontrovertibile carattere della "cattiva occupazione"?

    Tra l'altro, rispetto ai lavoratori di "serie A", è solo il caso di rilevare che la c.d. "garanzia" - della quale, teoricamente, godrebbero i lavoratori tutelati dall'art. 18 dello Statuto - è tale solo sulla carta!

    Le conseguenze della recente crisi economica, patite dai lavoratori "garantiti", dimostrano - senza tema di smentite - che nessun lavoratore italiano è nell'oggettiva condizione di considerarsi tale.

    Tra l'altro, sono convinto che Ichino ricorra ad una forzatura e commetta un errore di grande sottovalutazione (e semplificazione) del fenomeno quando afferma: "E' la possibilità di non applicare la normativa in materia di licenziamento che costituisce un potente incentivo economico a ricorrere alla simulazione della collaborazione autonoma o comunque alla forma del lavoro precario da parte delle imprese".

    Personalmente, sono dell'avviso che i motivi siano almeno tre:

    a) un indubbio beneficio economico, costituito dai minori costi (retributivi e contributivi);

    b) un altrettanto consistente vantaggio di tipo "normativo", rappresentato da: ferie non pagate, malattia non riconosciuta, modalità di "recesso", ecc;

    c) uno stato di "soggezione permanente" e di sostanziale "condizionamento" del lavoratore.

    Senza, peraltro, dimenticare che, nel nostro Paese, oltre il 95 per cento delle imprese occupano meno di dieci dipendenti, con quasi il 50 per cento degli addetti totali. Se si considera, inoltre, che le piccole imprese (fino a 49 addetti) impiegano un ulteriore 21 per cento degli addetti, appare chiaro che l'area di applicazione dell'art. 18 non è poi così rilevante.

    In più - e chiudo sul punto - sarebbe interessante (e istruttivo) se il senatore Pd, all'illustrazione delle catastrofiche conseguenze prodotte (alle imprese) dall'applicazione dell'art. 18, facesse seguire anche la puntuale e precisa indicazione del numero delle "reintegre" effettive disposte dai giudici italiani. 

    Certo, la condizione di diffusa precarietà che caratterizza la stragrande maggioranza dei nuovi rapporti di lavoro - e non solo quelli che coinvolgono i figli, anche quelli che riguardano molti padri - rappresenta un fardello molto gravoso che, però, a mio avviso, non si attenua né si riduce significativamente privando tutti i nuovi assunti della tutela dell'art. 18.

    Così come non concorre a risolverlo la sterile (e, spesso, strumentale) contrapposizione tra giovani e vecchie generazioni di lavoratori.

    Né concorre a "derubricare" il danno - arrecabile a tutti i futuri lavoratori, privati dell'art. 18 - la previsione della riconferma dell'illegittimità del licenziamento discriminatorio (come già anticipato, sempre estremamente difficile da dimostrare).

    Anzi, a questo proposito, ritengo addirittura offensivo che - nella risposta al Segretario nazionale della Falcri-Silcea - il senatore Pd affermi di non considerare "In alcun modo coinvolte la dignità e la libertà del lavoratore in un licenziamento di natura economica o organizzativa, dove è invece essenziale proteggere la sicurezza economica e professionale del lavoratore".

    Personalmente, indifferente agli interessi di tipo "aziendalistico", che sottacciono all'idea di (sostanziale) liberalizzazione del licenziamento, continuo, piuttosto, a sostenere che l'ipotesi di consentire un licenziamento senza "giusta causa" - per motivi di carattere "economico od organizzativo", aggiuntivi a quelli (legittimamente previsti e ampiamente utilizzati) di carattere collettivo o individuale, per ragioni "oggettive" - rappresenta (ancora e sempre) una grave offesa alla dignità dei lavoratori. Che non sarà mai adeguatamente (e sufficientemente) quantificabile in termini meramente economici!

    In definitiva, reputo che la soluzione al problema della precarietà non abbia nulla a che vedere con l' abrogazione dell'art. 18 della legge 300/70 e - pur senza ripetere tutti i motivi che mi fanno ritenere il ddl 1481/09 non condivisibile - temo che lo stesso - per i circa nove milioni di lavoratori che Ichino definisce di "serie B" - rappresenti, in sostanza, un vero e proprio "specchietto per le allodole". Nonché il più classico dei "cavalli di Troia", per quel che (oggi) resta del Diritto del lavoro italiano.

    Esso, infatti, seppur presentato nell'accattivante veste di epocale "Riforma del diritto del lavoro", finalmente "traducibile in inglese", come (ossessivamente) ama ripetere l'autore - tende, a mio parere, a produrre la sostanziale "stabilizzazione della precarietà" e, contemporaneamente, realizzare il sogno di generazioni d'imprenditori:   il definitivo superamento dell'art. 18 della legge 300/70.

    Questa volta, addirittura, attraverso il consenso di milioni di lavoratori (precari)!

Intecettazioni e P4: parliamone, Voi dalla parte della FIOM, Voi non capite niente, ma se volete ve lo spiego

Fa bene Bersani a dire che le notizie che non si configurano come reati "non possono essere pubblicate se irrilevanti, ma non si limitino le prove".
Detto questo tornando sulla P4, è desolante notare il livello della ns classe politica ed in questo caso dei ns ministri. Mancano completamente in competenza ed autorevolezza.
Le notizie che ci arrivano sembrano un favore fatto dalla magistratura in combutta con la stampa (parlo per la parte irrilevante penalmente) per dare una mazzata finale al già traballante governo Berlusconi che ricordiamoci, si tiene in piedi per la volontà di quei deputati e senatori obbligati a passare 5 anni in parlamento se un giorno vogliono accedere ad una pensione.

Solo in questo risiede la forza dell'attuale governo e non dal programma che non c'è. Inoltre in tempi di crisi, continuare a guadagnare sui 20.000 €uro al mese (ma Tremonti sta provvedendo a decurtarli) fino al 2013, certamente non è da sottovalutare.
Visto che ci hanno fatto questo favore (che non è corretto si ripeta, per questo trovo giusto l'intervento di Bersani) parliamone.
Ministro Gelmini: predica bene? e razzola male! Lei vuol togliere potere ai burocrati e a chi cerca scorciatoie e si va a laureare (lei di Brescia) a Reggio Calabria perché le percentuali di chi passava l'esame era del30% a Brescia e del 90% a Reggio Calabria. Se non è questa una furbata! Si può capire che un simile ministro non crede in se stesso ma che vada ad arruffianarsi con un faccendiere condannato dalla giustizia!!! Ministro Brambilla: di lei Bisignani senior e junior dicono che è la piú mignotta di tutte (pensate che educazione deve aver avuto questo figlio se usa certi termini parlando col padre).
Bisignani: faccendiere ex P2ista condannato a 2 anni e 6 mesi, un Licio Gelli in piccolo, implicato nello scandalo ENIMONT, la madre di tutte le tangenti italiane, ben 150 miliardi di Lire.
Non vorrei sminuirne la pericolosità, ma la storia di Bisignani (P4) erede di Licio Gelli ex "venerabile" della Loggia segreta P2 dimostra solo di quanto sia scesa l'importanza del ns Paese. Allora la P2 (con il mondo diviso in due, capitalismo/comunismo, la Gladio etc.. dove erano in gioco forze economiche e militari) aveva messo in piedi un vero governo ombra con un suo progetto politico nazionale ma collegato al mondo occidentale capitalista. Ora in qualche modo il progetto è andato in porto ma il ruolo dell'Italia nell'era globale non è più quello di prima. Gli scenari internazionali sono cambiati e cosi gli interessi.
Quindi il faccendiere di oggi (Bisignani) a capo della P4 quali interessi persegue? Quelli del Bunga Bunga, ossia dare una mano a chi fa parte della sua rete, influire sulle cose locali quali gli appalti, l'inserimento nei posti chiave di persone amiche, ricattare, intimidire, etc..etc..
Può l'Italia, ancora potenza economica mondiale (sempre più piccola), discreditarsi davanti al mondo con siffatti personaggi e con siffatti politici? La ns fortuna dice il grande giudice Caselli davanti ai giornalisti che gli ricordano la Mafia, è che l'Italia ha al suo interno anche gli anticorpi.
E sono proprio questi anticorpi che sono riemersi in questa tornata elettorale prima nelle amministrative poi nei referendum.
Puntiamo su quest'Italia, facciamola crescere e trasmettiamo al mondo questa Nuova Italia, Un'altra Italia. Ce la faremo!
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Gianfranco Tannino - Monaco di Baviera
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Voi dalla parte della FIOM
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A margine dell'Editoriale dell'ADL del 19.6.2011
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Caro Direttore, complimenti per il giornale pieno di spunti di riflessione... Solo, peccato che sia tutto apparenza. I sedicenti protettori degli operai non si fanno sentire quando qualcuno ha ragioni per criticarli.
Ricordo la barzelletta che costò il posto alla RAI a Beppe Grillo: Bettino Craxi, in viaggio in Cina, chiede al segretario del partito, Hu Yaobang, quanti socialisti ci siano in Cina. Hu gli risponde che tutti i cinesi sono socialisti. Craxi, meravigliato, si gira: "Ma allora chi fregano qui?".
Scusami lo sfogo ma fa una pena boia sentire belle parole senza sostanza. Io, come figlio di operai, ero un fervente difensore della sinistra. Ma ora vedendo che l'interesse del partito sta al di sopra degli stessi operai mi viene la nausea. Chi porta la bandiera socialista si prostituisce a interessi che sono tutt'altri a quelli dei slogan che inneggiano: "Difensori degli interessi degli operai".
Non parliamo dell' UNIA svizzera che fa più piangere che ridere e specificamente del caso INCA / CGIL "patronato della sinistra". Non vi devo proprio spiegare come si sta comportando. Roba da piangersi addosso inzuppandosi fino alle mutande.
La sinistra è morta e ora vive solo di belle parole del passato. I Padri che si sono fatti uccidere per difendere la causa sono stati traditi dai figli incapaci di resistere alle tentazioni dei padroni loro aguzzini.
Partiti come la Lega Nord o la SVP che propagano la xenofobia e lo smantellamento dello Stato sociale hanno più successo del partito che dovrebbe rappresentare oltre il 90% della popolazione perché è questa la percentuale della popolazione che deve vendere la propria forza lavoro per sfamarsi.
Cerco una differenza tra un club di tifoseria calcistica e i partiti di sinistra attuali che ho avuto il "piacere" di conoscere e non ne vedo. Stano ambedue in bella compagnia a inneggiare canzonette e sbandierare lenzuola multicolori. Tra il partitismo di sinistra ed il bunga bunga di destra non c'è una gran differenza.
Se ci fosse ancora "l'uomo folle" di Nietzsche lo vedresti correre per le strade gridando che il "Socialismo è morto". Morto e defunto e pensare che mai come oggi ce ne sarebbe bisogno.
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Marco Tommasini, CDF danneggiati Caso INCA<http://www.c-d-f.ch/>

Caro Tommasini, sì, stiamo decisamente dalla parte della FIOM, ma anche dalla vostra. E il tuo furore è anche il nostro.
È mostruoso che il responsabile del Patronato Inca di Zurigo sia finito per otto mesi in custodia cautelare con l'accusa d'avere falsificato timbri, firme, pacche sulle spalle allo scopio di derubare gli assistiti dei loro fondi pensione.
Qui si parla del sudore di operai emigrati, intere vite di lavoro, per decine di milioni di franchi che nessuno sa dove siano finiti. L'interessato dice di averli spesi nei bordelli svizzeri. Ora vedremo che cosa diranno i giudici.
E però: se un contabile ruba, non dirai che l'aritmetica è morta. Lo stesso deve valere per un sindacalista. Certo, da organizzazioni fondate su basi solidali-umanitarie ci si attenderebbe altro. E questo è sacrosanto. Purtoppo, ci sono persone che tendono ad abusare di ogni cosa, senza molte distinzioni tra il sacrosanto e l'esecrabile.
Quanto alle barzellette sul metodo craxiano, ricordo che alcuni socialisti criticavano Bettino quando era potentissimo, ben prima che fosse trasformato in capro espiatorio di un establishment corrotto.
Poi vennne la catastrofe del PSI in Italia. Non ci siamo mascherati da extraterrestri. Abbiamo continuato il nostro impegno di sempre. Quindi, nella piazza dell'Uomo Folle, il socialismo sarà forse morto, ma vive ancora nell'animo di chi continua a credere – senza ingenuità – nelle proprie idee. (AE)
Voi non capite niente,
ma se volete ve lo spiego
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Trovo comica la ricerca che ha fatto qualcuno di voi per dire quello che rifiutate.
Il movimento italiano (e ormai mondale) PER la democrazia, lo si chiama: "il popolo trasversale dei disobbedienti." (Balmelli). Comico e penoso.
Disobbediente a che? ...
Ma capisco che il non volerlo sapere ed il non dirlo e' in linea con il vostro giornale.
Ho smesso da tempo di perdere tempo nel cercare di spedirvi proposte di articoli o lettere: so ormai perfettamente che non li publicherete.
Sono "disobbedienti" !
E pertanto discordanti rispetto alla mentalita' dell' "obbediente" Mili - TONTO - Di - Partito.
Ma se un giorno, ... chissa' ... vorrete farvi "gioiosamente contaminare dalla modernità" visto anche che essa, dalla Spagna all'Italia, vi sta clamorosamente superando e che questa "modernita'" ( cosi' "disobbediente" !!! ...) vi sfugge e palesemente non ci capite niente, ... bussate pure alla porta.
Con la santa pazienza del professionista della didattica per adulti, come io sono, ve lo spiego.
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Prof. dott. ing. Leonello Zaquini, Le Locle

Grazie delle Sue utili considerazioni, professor Zaquini, sulle quali rifletteremo. - La red dell'ADL

lunedì 20 giugno 2011

Dibattito negli Stati Uniti: Reinventare il capitalismo?

a cura di rassegna.it

"Come reinventare il capitalismo?" -- E' la domanda che The Nation ha rivolto a un gruppo di studiosi, aprendo un dibattito sulla costruzione di "un'economia più umana". La necessità di un modello di "capitalismo inclusivo" che accetti la "redistribuzione del potere e del denaro".

di D. O.

"Immagina di avere la capacità di reinventare il capitalismo americano: da dove inizieresti? Cosa cambieresti per renderlo meno distruttivo e prepotente, più incentrato su ciò di cui la gente ha realmente bisogno per una vita soddisfacente?". E' la domanda che il magazine The Nation ha rivolto a un nutrito gruppo di studiosi ed esperti, aprendo un dibattito sulla costruzione di "un'economia più umana".

    Come osserva William Greider in un articolo di resoconto, le risposte ottenute dalla rivista "offrono un campionario di provocazioni intelligenti" e di "proposte concrete per riformare il malfunzionante sistema economico".

    C'è chi propone una tassa sulle speculazioni finanziarie, chi rilancia la responsabilità sociale delle imprese, chi la partecipazione dei lavoratori agli utili, chi vuole andare oltre il Pil nella misurazione del benessere (riprendendo il dogma di Stiglitz e Fitoussi), chi chiede al governo un intervento maggiore nell'economia di mercato, in particolare per la creazione e la difesa dei posti di lavoro.

    "Il problema – prosegue Greider - è che nessuna di queste idee esercita una leva sul mondo politico. Entrambi i partiti sono arenati in risse meschine, incapaci di pensare in modo creativo o anche di dire la verità sulla nostra crisi economica. I Repubblicani si perdono nella nostalgia assurda per forme di governo piccole e semplici. Anche i Democratici hanno le loro delusioni: insistono sul fatto che la regolamentazione possa in qualche modo riparare tutto ciò che si è rotto, ignorando che proprio il fallimento della regolamentazione è stato una delle cause principali della crisi catastrofica".

    Per The Nation le patologie economiche generate da un capitalismo senza limiti sono in espansione: "Diminuzione dei salari e dell'offerta di lavoro, aumento del deficit commerciale e del debito estero, disuguaglianza e sgretolamento della classe media, e il sistema politico non ha una sola risposta per tutti questi problemi".

    Riprendendo uno dei saggi pubblicati, The Nation suggerisce un modello di "capitalismo inclusivo" o autenticamente "democratico", la cui "essenza fondamentale" sia la "redistribuzione del potere e del denaro". "Ovviamente, questo richiederà un governo più forte (anche se non necessariamente più voluminoso) che smetta di sovvenzionare la cattiva distribuzione della ricchezza e del reddito attraverso leve fiscali e programmi di spesa". Potrebbe essere un programma di secondo mandato per Mister Obama.

Crisi greca, in gioco il futuro Ue

Economia

a cura di ItaliaOggi

Le banche sono piene di bond ellenici e bloccano ogni decisione

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

L'economia è ritornata ad essere il fantasma da fugare. Presente ma non voluto come ai summit del G8 pre crisi finanziaria. Il documento finale di Deauville sembra un prodotto della guerra fredda: si passano in rassegna tutti i punti caldi del mondo pur di non affrontare dovutamente le emergenze economiche nei paesi cosiddetti industrializzati.

    Sbrigativamente esso dice che la ripresa si rafforza anche se i rischi di ricaduta rimangono. Che raffinata analisi! Del rischio di default degli Usa, di quello della Grecia e del futuro dell'Unione europea non c'è alcun cenno! Il fatto che non si parli in pubblico dei veri problemi dell'economia indica che essi, purtroppo, sono più gravi e preoccupanti di quanto poi si sostiene.

    Intorno al salvataggio o meno della Grecia si sta celebrando la minaccia di morte dell'Europa e dell'euro. A fine giugno serviranno altri 12 miliardi di euro, 8 dalla Ue e 4 dal Fmi, per evitare il default ellenico. Dopo la miserabile caduta di Strauss-Kahn, un Fmi a momentanea trazione americana sembra sempre più orientato a sfuggire ai propri impegni.

    I mercati sembrano aver messo la Grecia e l'Europa di fronte soltanto a due alternative: default greco e ritorno alla dracma oppure ristrutturazione, cioè allungamento delle scadenze del debito sovrano ellenico. Così poste, entrambe, secondo noi, sono inaccettabili per l'Europa. Porterebbero in modi differenti alla progressiva dissoluzione del progetto europeo e dell'euro.

    I mercati dicono che la bancarotta di Atene avrebbe un effetto di contagio immediato e comporterebbe il fallimento dell'Europa unita. Le ricadute sui valori dei titoli di stato sarebbero inevitabili. I mercati indicano che anche la ristrutturazione del debito sovrano sarebbe contagiosa e porterebbe ad un immediato crollo delle obbligazioni elleniche.

    L'opposizione della Bce sia allo sganciamento della Grecia dall'euro che ad una eventuale ristrutturazione del debito non è tecnica ma politica! Tecnicamente la ristrutturazione si potrebbe fare, ma i dirigenti della Bce sanno bene che, oltre ad essere una perdita secca per le sue casse, queste due ipotesi inevitabilmente segnerebbero la fine della banca centrale e delle altre istituzioni europee. La Bce sarebbe esposta per circa 375 miliardi di euro nei confronti dei paesi Pigs. 180 miliardi soltanto con l'Irlanda. La Banca centrale europea detiene il 17,6% del debito ellenico e le banche europee ne hanno in pancia il 18,6%.

    Il problema è la sudditanza nei confronti dei mercati!

    Fintanto che si rimane in questa logica non vi saranno vie d'uscita ragionevoli. Si continuerà a giocare con il fuoco della disgregazione dell'Ue fintanto che la casa andrà in fiamme e sarà troppo tardi per chiamare i pompieri. Ricordiamoci che quando il crollo della Lehman Brothers portò il mondo della finanza globale alla soglia del default sistemico, tutti, banche e mercati compresi, chiamarono gli Stati ad intervenire.

    Allora i mercati non parlavano, le agenzie di rating erano «nascoste nei sotterranei», le banche non ponevano condizioni. Tutti stendevano la mano in cerca disperata di aiuto. Si prenda il caso dei due colossi americani dei mutui e delle ipoteche immobiliari, Fannie Mae e Freddie Mac. Essi avevano un'esposizione totale di 5.200 miliardi di dollari, pari a più di un terzo del debito pubblico Usa. 1.500 miliardi erano per i mutui e il resto per i derivati Mbs (mortgage based securities) fatti poi circolare nel resto del mondo.

    Nel 2009 il Congressional Budget Office calcolò un costo di salvataggio di almeno 389 miliardi. Ma oggi, nello scenario peggiore, il costo potrebbe salire a 1.000 miliardi. La crisi era ed è bancaria e finanziaria, non primariamente del debito sovrano. L'Ue, a cominciare dalla Germania e dalla Francia, deve quindi decidere se vuole privilegiare la sua stessa esistenza o gli interessi dei mercati e delle banche. È una scelta politica prima che economica da portare fino fondo! Come fece il presidente Franklin Delano Roosevelt con i suoi interventi di profonda riforma del 1933.

    Dopo una tale decisione l'Ue potrebbe definire come ristrutturare i debiti pubblici, siano essi della Grecia o della Francia, mettendo in campo contemporaneamente progetti e finanziamenti per un rilancio vero dei settori produttivi. I mercati e i loro grandi attori bancari e finanziari saranno obbligati a prenderne atto.

    Altrimenti dalla Grecia potrebbe avanzare sul resto dell'Europa lo spettro della Repubblica di Weimar, fatto di collasso economico, di inflazione galoppante, di disperazione delle famiglie e dei senza lavoro e di scontri sociali violenti.

domenica 12 giugno 2011

NOVE (!) SÌ NELLA MIA MILANO, QUATTRO SÌ E QUATTRO FIRME PER CAMBIARE L'ITALIA

NOVE (!) SÌ NELLA MIA MILANO

Questo fine settimana è l'occasione per esprimere una volontà di "cittadinanza attiva" andando (e per molti di noi sarà, felicemente, l'occasione di tornare) a votare per i referendum, 4 in tutta Italia, 9 ( 4 + 5) a Milano città.
Sapete, sappiamo tutti, il valore del voto sempre, anche quando non è un obbligo giuridico.
Votare per i referendum è poi un modo per intervenire nel "processo legislativo", sia pure in chiave di cancellazione, per quanto riguarda i referendum nazionali.

E' un modo per dire la nostra, per farci sentire, per contare, per esprimere un protagonismo, consapevole e orgoglioso, come ho visto con grande "gioia democratica" fare a tante persone di tutte le età, di tutti i ceti sociali.
Ho visto tante donne e uomini, molto diversi tra loro, ma accomunati da una convinzione democratica: sono un cittadino, ho diritti e doveri, sono parte di una comunità e devo dire (e fare) la mia.
Così spero per referendum, qualunque siano le opinioni.
Le mie sono: TUTTI Sì.
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Patrizia Toia, Milano
Europarlamentare DeS
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QUATTRO SÌ
E QUATTRO FIRME
PER CAMBIARE L'ITALIA

Domenica 12 e lunedì 13 giugno le elettrici e gli elettori italiani sono chiamati alle urne per rispondere a quattro quesiti referendari che possono rappresentare, con il raggiungimento del quorum e la vittoria dei Sì, un ulteriore avviso di sfratto, dopo il chiaro segnale venuto dalle recenti elezioni amministrative, per il governo Berlusconi e la precaria maggioranza parlamentare che ancora lo sostiene.
I socialisti invitano dunque a recarsi ai seggi e a votare quattro Sì.
I temi oggetto del referendum sono infatti da anni al centro delle nostre battaglie.
In particolare è necessario sventare il tentativo del governo volto a perseguire una politica energetica basata sulla costruzione di nuove centrali nucleari, tema già sollevato nel 1987 dal Psi che fu tra i promotori di un analogo e vittorioso referendum, garantire che la giustizia sia davvero uguale per tutti, cancellando l'iniqua legge sul legittimo impedimento e rendere l'acqua un bene fruibile per tutti i cittadini pur nella consapevolezza che, su questa questione, occorrerà adottare interventi legislativi atti ad evitare che il monopolio delle aziende pubbliche sia assoluto non essendoci imprese collocate sul mercato che potrebbero invece favorire maggiore efficienza delle reti idriche con un costante monitoraggio e manutenzione degli impianti e, in virtù della concorrenza, ad un costo più basso per i cittadini. Sarà inoltre necessario modificare l'attuale normativa che, in tema di gestione dell'acqua, consente ai comuni di ricoprire la doppia veste di controllori e controllati.
L'occasione data della consultazione referendaria dimostra una volta di più quanto sia indispensabile cambiare l'Italia.
Muovendo da codesta convinzione abbiamo proposto all'attenzione dei cittadini quattro petizioni popolari per modificare l'attuale legge elettorale, cambiare il finanziamento pubblico ai partiti, per istituire una tassa equa sulle transazioni finanziarie e per innovare la legislazione sul lavoro, allo scopo di eliminare la precarietà e dare parità vera a uomini e donne.
Prosegue in tutta Italia la raccolta firme già avviata.
Chiediamo ai cittadini di aderire apponendo una firma su ciascuna delle petizioni.
Lo potranno fare recandosi presso i gazebo che i socialisti allestiscono in tutti i capoluoghi di provincia.
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RICCARDO NENCINI
Segretario nazionale del Partito Socialista Italiano

mercoledì 8 giugno 2011

Non formale

Carissimi, prendendo spunto dalla ricorrenza della festa della Repubblica, oggi più che mai una scadenza non formale, vivalascuola propone un fondamentale discorso di Piero Calamandrei su "I giovani e la Costituzione" e una riflessione di Marina Boscaino su cosa vuol dire Costituzione della Repubblica in questo 2 giugno 2011.

La Costituzione, introdotta dalle parole di Calamandrei<http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2011/05/30/vivalascuola-84/>, ancora più che in passato deve rappresentare per tutti noi un collante significativo e l'annuncio di una direzione dalla quale non vogliamo e non possiamo deragliare.
Perché, come dice Marina Boscaino, "è bella la Costituzione che ci racconta Calamandrei. Perché è bella la Costituzione: viva, dignitosa, giusta, leale, sobria, indignata, critica, solidale. E belle sono le voci che Calamandrei fa riecheggiare in quelle parole, in quegli articoli: Cattaneo, Beccaria, Cavour, Garibaldi, Mazzini"…
Completano la puntata segnalazioni e informazioni della settimana scolastica. Grazie dell'attenzione, e un cordiale saluto.
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Giorgio Morale, Milano