lunedì 27 dicembre 2010

La terza via del socialismo

Nel suo intervento del 3 dicembre a Varsavia al consiglio Pse, Massimo D'Alema, in qualità di presidente della Feps, ha svolto una relazione politica improntata sull'odierna crisi della socialdemocrazia "tradizionale", così come non solo in Europa. Il giudizio finale complessivo è stato piuttosto netto: "se le parole hanno significato e valore, la socialdemocrazia tradizionale (…) da sola non è più sufficiente".

Ma se le parole hanno significato e valore, è per l'appunto con queste che bisogna fare i conti; e allora il discorso, è facile intuirlo, è in realtà molto ma molto più complesso di quanto possa semplicemente apparire; al punto che due paginette dattiloscritte appaiono senz'altro insufficienti, ma pur sempre possono servire a dare un'idea di dove s'intenda andare a parare. Il nuovo progetto "progressista" del socialismo europeo dovrebbe, secondo il giudizio di D'Alema, poggiare su tre pilastri: "democrazia, uguaglianza e innovazione". Sì che, c'è da chiedersi cosa dovrebbe rappresentare il nuovo rispetto alla cultura tipica della socialdemocrazia definita tradizionale.

A ben vedere, il concetto di "democrazia" rappresenta in effetti il vero e proprio caposaldo di una nuova "ideologia", secondo la parola in voga nel secolo scorso, servita per quasi due secoli a caratterizzare i diversi schieramenti politici tra loro diversamente contrapposti. In proposito, del tutto significativo è il dibattito ancora recente svolto in ambito internazionale circa la legittimità o soltanto l'opportunità di esportare la democrazia nei paesi che ne risulterebbero ancora privi.

Il principio democratico, nelle sue varie articolazioni, fonda il diritto della maggioranza a governare una collettività in confronto all'azione svolta dalla minoranza, in un sistema di articolazione del potere più o meno ramificato e quindi in un'ottica bipolare formata nell'ambito di ciascun polo da una o più parti politiche.

In principio di intervento, D'Alema dice che "nei sistemi bipolari l'alternanza è fisiologica" e che "la crisi (della socialdemocrazia) ha portato alla luce la questione della rilevanza dei nostri valori: siamo stati sconfitti perché, sulla scia della Terza via, li abbiamo abbandonati".

Ora, mi permetto di dubitare: quale alternanza ha visto mai l'occidente prima della caduta dei due blocchi di potere americano e sovietico? In secondo luogo: non è stato forse proprio grazie alla scelta della Terza via che, nel corso degli anni novanta, e ancora oltre, è stato possibile ad alcuni schieramenti di centro-sinistra governare le maggioranze all'interno di molti paesi, e non solo europei?

E ancora: se bene comprendiamo la scelta della Terza via tra il neoliberismo della destra e le politiche assistenziali della vecchia sinistra, cosa rappresenterebbe di diverso, almeno sul piano nominalistico, il futuro del nuovo progetto, se non per l'appunto una diversa via tra la socialdemocrazia "tradizionale" e il neo liberismo delle forze conservatrici; e quindi, direi ancora, sostanzialmente una Terza via?

Certo, sarebbe contraddittorio pensare che si è detto male della Terza via per dire poi

martedì 21 dicembre 2010

Critica liberale

LETTERA

Cari Amici, il 2010 si conclude con la nascita del nuovo sito della Fondazione Critica liberale. Rispetto all'attuale sarà più ricco e più legato all'attualità. Il momento politico è particolarmente grave. Noi non ci siamo mai scoraggiati e abbiamo fatto il possibile per contrib uire alla lotta contro il degrado politico e civile del nostro paese. Il nostro impegno contro Berlusconi, e ancor di più contro il berlusconismo ( che come virus ha contagiato anche la sinistra) è stato costante. E vogliamo continuare. Prestissimo usciremo pure con una nuova serie della rivista. Chiederemo il vostro aiuto.

    a) Per il nuovo sito abbiamo bisogno di ricostruire una mailing list. Vi preghiamo di iscrivervi o di riscrivervi al link http://newsletter.criticaliberale.info/?p=subscribe&id=1 così potrete ricevere settimanalmente e gratuitamente "Radio Londra, la newsletter di Critica liberale". E' importante iscriversi (di nuovo) perchè il vecchio indirizzario sarà abolito.

    b) Ci aspettiamo il vostro aiuto. Scriveteci suggerimenti, critiche e disponibilità di collaborazione. Per iniziare, vi preghiamo di comunicarci indirizzi e.mail di vostri amici cui inviare questa stessa lettera o, meglio, di mandare voi stessi questo invito (semmai personalizzandolo) alla vostra mailing list.

    c) Il nuovo sito avrà una pagina in cui segnaleremo i siti e i blog di amici. Naturalmente a titolo di scambio. Aspettiamo vostre indicazioni.

Vi ringrazio
Enzo Marzo     

UE - Via libera al Fondo salva stati

LAVORO E DIRITTI
a cura di rassegna.it

I capi di stato e di governo assicurano: "Faremo di tutto per la stabilità della moneta unica". Critiche dal Fondo monetario internazionale: "Ue lenta, non otterrà molto". Eurobond ancora tabù, per ora vince il veto di Germania e Francia

Il Consiglio Ue di Bruxelles ha ratificato la creazione di un Fondo salva-stati permanente. Sarà attivo a partire dalla metà del 2013, dopo le modifiche del Trattato di Lisbona. I capi di Stato e di governo dell'Eurozona, riuniti in Belgio per due giorni (16 e 17 dicembre) si dicono pronti a 'fare tutto quello che è necessario per assicurare la stabilità della zona euro nel suo insieme". Il tentativo è quello di scoraggiare gli attacchi speculativi che potrebbero colpire Portogallo e Spagna e in un caso del genere si attingerebbe al Fondo temporaneo già attivato per l'Irlanda. Non tutti, però, sono convinti che si tratti di una risposta adeguata. Tra le critiche spicca quella del Fondo monetario internazionale, che aveva proposto, insieme alla Bce, di aumentare immediatamente le risorse dell'attuale Fondo temporaneo, proposta bocciata per il veto della cancelliera tedesca Angela Merkel.

    Ecco i sette punti su cui i governi si impegnano dell'Eurozona: piena attuazione dei programmi di aiuto a Grecia e Irlanda; determinazione nel portare avanti i piani di austerity per risanare le finanze pubbliche; sostegno alla crescita attraverso le necessarie riforme strutturali; rafforzamento del Patto Ue di stabilità e di crescita con un accordo entro l'estate del 2011; risorse adeguate ai Paesi in difficoltà attraverso l'attuale Fondo salva-stati; ulteriore rafforzamento delle regole nel settore finanziario, compresi nuovi stress test per le banche; sostegno all'azione della Bce.

    Al Fondo permanente si potrà ricorrere solo come 'ultima ratio' e solo con una decisione da prendere all'unanimità, vincolando  i prestiti ai paesi in difficoltà a condizioni molto severe. Le modifiche del Trattato Ue necessarie per creare il Fondo saranno molto limitate, ma alcuni paesi - quelli con una forte componente euroscettica - destano qualche timore, perché anche un solo no bloccherebbe tutto. Dal premier irlandese, Brian Cowen, sono arrivate rassicurazioni: un referendum sulle modifiche in Irlanda (il cui esito sar è "molto improbabile".

    I leader dei 27 restano divisi sull'idea degli eurobond. La questione è stata sollevata di nuovo nel corso di una  cena di lavoro in Belgio, il progetto portato avanti da Italia e Lussemburgo, non ha raccolto consensi. Anche in questo caso a dettare la linea è la Germania, contraria agli eurobond perché "non eliminerebbero le debolezze in Europa mentre eliminerebbero la pressione sugli Stati indebitati per risanare i propri bilanci", ha detto Merkel. Sulla posizione di Berlino è affiancata da Parigi e per ora non se fa nulla. Ma in molti sono convinti che la discussione continuerà nei prossimi mesi.     

lunedì 13 dicembre 2010

Consiglio europeo - L'UE deve accelerare

EUROPA

In occasione del prossimo Consiglio europeo, convocato per il 16 e 17 dicembre l'Europa deve accelerare nell'opera di riforma della governance

Gianni Pittella
Vicepresidente vicario del Parlamento europeo

Proprio nel momento in cui i tempi sembravano maturi per dotare l'Unione europea di maggiori poteri "politici", attraverso il deciso rafforzamento del ruolo di coordinamento delle politiche economiche, la rottura sul Bilancio comunitario e la precipitazione della situazione irlandese riportano l'Europa a confrontarsi con i peggiori scenari e, come sottolineato dal  Presidente Van Rompuy, con un rischio "sopravvivenza" dell'Unione.

    Pare proprio che a qualche governo non vada giù di cedere competenze nazionali a vantaggio di una gestione comune, né di mettere mano alla cassa in favore di un altro Paese in difficoltà. A spingere in queste ultime ore l'Europa sul bordo del precipizio sono stati soprattutto i tentennamenti della Merkel in occasione dell'intervento di salvataggio prima della Grecia, ed ora dell'Irlanda, e l'azione irresponsabile e demagogica del premier inglese Cameron che ha lavorato per affossare ogni margine di accordo sul bilancio europeo.

    In tale scenario anche i mercati finanziari stanno facendo la loro parte nel destabilizzare l'Europa politica, tentando di svincolarsi da qualsiasi forma di coinvolgimento in eventuali ristrutturazioni delle finanze pubbliche.  Non é un caso che le fibrillazioni degli investitori siano aumentate a seguito dell'ipotesi ventilata dalla Germania di un coinvolgimento del settore privato nei piani di salvataggio.  Ci sono tuttavia gli strumenti e i tempi per ribaltare la situazione e rilanciare l'azione europea. Partiamo dal Bilancio. Scaduti i 21 giorni previsti dal Trattato per trovare un accordo tra Consiglio e Parlamento, adesso la Commissione europea presenterà una nuova proposta che andrebbe approvata entro fine anno per non penalizzare i beneficiari delle risorse europee: dalle Regioni che utilizzano i fondi strutturali gli agricoltori che beneficiano della PAC, dalle Università e centri di ricerca agli enti locali, per finire con le nuove autorità europee responsabili della vigilanza dei mercati che saranno operative da gennaio 2011 ma che, senza bilancio approvato, non avranno nemmeno un  euro per partire.

    La base negoziale per fare l'accordo é di assoluta saggezza ed il Parlamento, con la massima responsabilità istituzionale, si é mostrato pronto ad accettare l'ulteriore taglio di 4 miliardi richiesto dai governi - per venire incontro alle difficoltà di cassa degli stati membri - a patto però che per il 2012-2013 siano previste maggiori risorse per far fronte ai nuovi compiti che il Trattato di Lisbona conferisce all'UE ed agli obiettivi concordati con la Strategia "Europa 2020" che i governi votarono all'unanimità e che ora é ben strano non vogliano più finanziare.

    Mi auguro che in occasione del prossimo Consiglio europeo, convocato per il 16 e 17 dicembre, si registri il medesimo senso di responsabilità mostrato dal Parlamento e che non prevalga la miopia distruttrice di tre Paesi - Inghilterra, Olanda e Svezia - sulla maggioranza di chi vuole coniugare austerità e risparmi con crescita e sviluppo, rigore nella spesa con salvaguardia degli investimenti europei indispensabili per il futuro dei cittadini. In merito poi alla questione irlandese ed alla generale crisi delle finanze pubbliche europee bisogna agire con gli strumenti che sono a disposizione. L'Europa deve mantenere ben saldo il timone puntando a rendere il prima possibile permanente  il "meccanismo di stabilizzazione", accelerare nell'opera di riforma della governance economica prevedendo chiari paletti per l'applicazione del patto di stabilità e,  parallelamente, continuare nell'azione già in atto di regolamentazione dei mercati finanziari. Anche perché l'euro non puó essere  ostaggio di mercati finanziari che stanno facendo la loro parte nel destabilizzare l'Europa politica, tentando di svincolarsi da qualsiasi forma di coinvolgimento in eventuali ristrutturazioni delle finanze pubbliche.  

Il modello Germania Est per il nostro Mezzogiorno

Economia
a cura di ItaliaOggi

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

Dopo la caduta del muro di Berlino e l'unificazione della Germania le regioni tedesche dell'Est potevano finire nell'abbandono e nell'arretratezza economica come il nostro Mezzogiorno. Ciò non è successo.

    Oggi la Germania dell'Est è un territorio totalmente differente con nuove infrastrutture e nuovi insediamenti abitativi, con notevoli investimenti in alta tecnologia e nei parchi industriali.

    È una lezione che merita un attento studio.
    In 20 anni il Pil dei 5 Laender orientali (Brandeburgo, Meclenburgo-Pomerania, Sassonia, Sassonia-Anhalt, Turingia, ) è aumentato del 200% e partecipa per il 20% a quello nazionale. I redditi privati sono cresciuti del 50%, il livello di produttività ha raggiunto il 72% di quello occidentale. Per arrivare a questi risultati sono stati trasferiti e investiti oltre 1.200 miliardi di euro. C'è ancora un gap con gli altri laender occidentali ma dovrebbe essere superato in pochi anni.

    All'inizio è stato molto difficile e la situazione sarebbe potuto diventare devastante. Dopo la parità tra il marco di Pankov e quello di Bonn, che richiese un notevole impegno finanziario, i prezzi dei prodotti industriali dei nuovi laender aumentarono del 400%. L'industria orientale non aveva alcuna chance nella competizione con i fratelli occidentali e con i mercati internazionali. Basterebbe mettere a confronto l'auto Trabant di Erick Honecker con la più piccola utilitaria della Volkswagen di Helmut Kohl per comprendere la situazione.

    Nei primi dieci anni dopo l'unificazione vi è stato un processo di deindustrializzazione e di smantellamento dell'economia nelle regioni dell'Est, con una disoccupazione di oltre il 20% e un'emigrazione di 2 milioni di persone. L'iniziale il processo di ristrutturazione venne affrontato con metodi burocratici e lenti e affidato ad una apposita agenzia, la Treuhandanstalt. La privatizzazione delle industrie di stato fu un vero fallimento e in breve tempo produsse perdite per 100 miliardi di euro.

    Dopo circa 10 anni la Germania però cambiò radicalmente rotta. Decise che era necessario un trasferimento di capitali, di conoscenza e di tecnologia, altrimenti quelle regioni depresse avrebbero corrotto e minato l'esistenza dell'intero paese.Si comprese che lo Stato avrebbe dovuto direttamente affrontare tale compito con un sostegno mirato per garantire il trasferimento di know how e di tecnologie per corridoi orizzontali tra laender, industrie e centri di ricerca.

    In certo senso la Germania ha saputo formulare una sintesi moderna ed efficace tra lo «stato imprenditore» di Enrico Mattei e la «planification indicative» di Charles De Gaulle per mettere quelle regioni in condizioni di affrontare le sfide dei mercati mondiali. Intelligentemente sono stati trasferiti gli standard istituzionali, legali e amministrativi della Germania occidentale, garantendo un forte impegno nella lotta contro la corruzione. Certamente l'innovazione e lo sviluppo delle conoscenze sono la base di ogni società moderna, ma, per una positiva performance economica di un paese, è essenziale la diffusione delle moderne tecnologie su uno spettro ampio di applicazioni industriali.

    La Germania ha messo in campo il meglio della ricerca pubblica: università, istituti per le scienze applicate e centri di ricerca. Questi ultimi, anche se parzialmente privati, gestiscono bilanci pari a un terzo delle spese statali per la ricerca scientifica e sono il vero asso nella manica dell'eccellenza tecnologica e dell'innovazione industriale tedesca. Per esempio, il Fraunhofer Gesellschaft, da solo conta oltre 17.000 ricercatori e impiegati distribuiti in 60 centri. Lo Stato ha anche impegnato la rete dei Technologietransferstelle per il trasferimento delle tecnologie dalla ricerca all'industria.

    Inoltre per frenare la fuga dei cervelli da quei territori ha realizzato un'intensa rete di trasporti e comunicazioni e creato la necessaria cultura del business prima ovviamente assente. Il risultato è quello di uno sviluppo in settori importanti quali i semiconduttori, i nuovi materiali, la chimica avanzata, l'ottica, le biotecnologie, il solare e il fotovoltaico.

    E in Italia? Senza voler importare modelli altrui sarebbe urgente realizzare un serio piano infrastrutturale materiale e immateriale per il nostro Sud per eliminare le attuali diseconomie che frenano investimenti e ritardano l'integrazione economica tra le varie realtà in Italia ed in Europa.

    Sarebbe auspicabile che sul tema Mezzogiorno si creasse davvero una unità di intenti a livello politico e una efficace e corretta sinergia comportamentale tra le amministrazioni regionali e il governo nazionale. Il mondo è profondamente cambiato e la persistente crisi finanziaria globale ha modificato gli assetti geopolitici ed economici. Si dovrebbe considerare che forse il Mezzogiorno potrebbe essere la salvezza dell'intera economia italiana.   

domenica 5 dicembre 2010

Diritti e cittadinanza in Svizzera, That's pochezza

Diritti e

cittadinanza

in Svizzera


Lo scorso 28 novembre l'elettorato svizzero si è espresso, con il 53% dei voti favorevoli, per l'espulsione degli stranieri che si macchiano di reati, così come richiesto genericamente nel testo dell'iniziativa promossa dal partito xenofobo della destra Unione di Centro (UDC). Con una percentuale simile è stata bocciata la controproposta governativa che accoglieva in linea di principio la richiesta dell'iniziativa, ma limitando significativamente le fattispecie dei reati per i quali si poteva prevedere l'espulsione. Per la verità, analizzando nel dettaglio il risultato, con una lettura differenziata tra città e campagna, tra Svizzera tedesca e italiana da una parte e Svizzera francese dall'altra, emerge ancora una volta un quadro complesso degli umori e delle posizioni di questo Paese: si va infatti cristallizzando da un lato una Svizzera moderna, urbana, che convive serenamente con la sua dimensione multiculturale, dall'altro si conferma l'esistenza di una Svizzera montana e valligiana ancora immersa nelle paure del diverso. Quest'ultima prevale in termini assoluti, ma le distanze si sono accorciate. Questo elemento di speranza andrebbe valorizzato, ma è sul saldo totale negativo che è utile imbastire qualche riflessione critica. Non si tratta certo di fare accademia "a posteriori", ma occorre analizzare in tutte le sfaccettature la complessità di questo drammatico momento storico anche per "darci la sveglia". È fondamentale infatti ricostruire un fronte progressista capace di contrastare già sul nascere i nuovi attacchi che si preannunciano dalla destra svizzera sulle procedure di naturalizzazione e sulla doppia cittadinanza, un fronte che sia nello stesso tempo capace di rilanciare i temi dei diritti e della piena integrazione.

Il voto negativo del 28 novembre conferma un trend che si è manifestato negli ultimi anni nella bocciatura delle proposte di naturalizzazione facilitata, nel massiccio rifiuto di iniziative cantonali per il diritto di voto, nell'introduzione del divieto di costruzione dei minareti. Permane in una maggioranza dell'elettorato e nell'opinione pubblica elvetica un mix di paure e risentimenti antistranieri, su cui la destra imbastisce le proprie campagne e le proprie fortune elettorali. L'Unione di Centro, il partito maggioritario della destra svizzera, agisce secondo un cliché ormai consolidato, con proposte e messaggi estremamente semplificati (spesso anche semplicistici sul piano giuridico) e con campagne pubblicitarie in cui si ricorre sempre più spesso a immagini brutali e di forte impatto. Anche nel caso del voto sull'espulsione ha colpito la sproporzione tra la potenza della propaganda della destra, che gode evidentemente di risorse ingenti, e la pochezza degli strumenti messi in campo dalle forze contrarie all'iniziativa. La destra ha imparato benissimo a operare su paure diffuse della popolazione, in qualche modo le "alliscia" e le cavalca e nello stesso tempo ne genera di nuove. Non v'è dubbio che essa abbia individuato con chiarezza alcuni fattori di malessere ed insicurezza: in tal senso i temi della criminalità, regolarmente messi in relazione con la presenza degli stranieri, rappresentano anche in Svizzera un ottimo ingrediente per le campagne xenofobe. L'equazione "straniero=criminale" viene agitata al di là di ogni considerazione obiettiva e serena dei dati di fatto, che descrivono condizioni di sicurezza nelle varie realtà di questo Paese tutt'altro che drammatiche. In queste campagne si omette il dato che la stragrande maggioranza delle collettività immigrate in Svizzera vivono e lavorano pacificamente nel pieno rispetto delle leggi locali.

In questo voto il fronte anti-iniziativa - e lo stesso Partito Socialista - si è diviso drammaticamente tra chi propugnava la battaglia sul principio, quindi il doppio No all'iniziativa e alla controproposta del governo, e chi ha sostenuto la linea del "male minore" quindi il controprogetto governativo. Noi come SEL avevamo fatto appello al doppio No. E, pur se bocciate entrambe le linee, credo che sia stato giusto così. Di fronte a temi che chiamano in causa principi giuridici fondamentali e i valori della convivenza servono a poco le ambiguità e le mezze misure, mentre occorre con determinazione impegnarsi in campagne di sensibilizzazione e di controinformazione che smascherino le mistificazioni della destra. Ed è questa determinazione che ancora una volta è mancata da parte del fronte progressista, forse preoccupato di toccare nervi sensibili di parti del suo elettorato popolare. La destra svizzera con le sue ripetute campagne xenofobe va affrontata a viso aperto, mettendo in campo una linea alternativa che faccia leva sui diritti e sulla cittadinanza come fondamentali risorse di una convivenza serena e feconda. Cedere sul terreno dell'ordine e della sicurezza, agitato strumentalmente dalle destre, non porta da nessuna parte!

Ancora una volta lo strumento referendario, e soprattutto in particolare la forma dell'iniziativa popolare, mostra i suoi limiti. È necessaria una riflessione sullo strumento in sé, ma soprattutto sull'uso demagogico che ne fa la destra, con il suo richiamo continuo alla volontà popolare. Intanto emerge anche in questo caso come le cosiddette iniziative spesso vengano ammesse al voto senza un attento esame dei principi costituzionali che esse vanno ad intaccare, creando così innumerevoli contenziosi giuridici. È stato il caso del voto sui minareti, il cui divieto contrasta con il principio-cardine della libertà religiosa, è il caso dell'iniziativa sull'espulsione che contrasta con norme fondamentali del diritto internazionale e lascia aperti numerosi interrogativi circa l'ambito della sua applicazione. Ma le domande sono anche più di fondo: in Svizzera, dove la popolazione straniera (straniera per passaporto, ma non per cultura e lingua!) supera il 20% (in alcune aree urbane ben oltre il 50%) chi è il popolo? Di fatto gli elettori diventano sempre più una minoranza che decide per la maggioranza! E ancora: con quali strumenti e con quale "par condicio" si garantiscono l'informazione e il corretto svolgimento delle campagne referendarie?

Si dice spesso che quanto emerge dalle consultazioni referendarie svizzere sia in linea con sentimenti diffusi e cavalcati dai movimenti di destra in tutta Europa. È vero. Ma in Svizzera attraverso le forme della democrazia diretta si offre uno strumento di sfogo di tali umori negativi. E non v'è dubbio che in Svizzera i referendum antistranieri siano ormai una costante storica che regolarmente espongono questo paese all'attenzione dell'opinione pubblica europea. Io continuo a ritenere che al di là del contesto sociale e politico che favorisce le iniziative antistraniere, una ragione fondamentale dei successi della destra su questo terreno sia da ricercare nelle insufficienze del fronte progressista, nella sua non determinazione ad investire su questo tema come priorità assoluta della sua politica, nelle sue ricorrenti tentazioni a copiare le destre sulla linea "Law and Order", nella sua incapacità a coinvolgere le rappresentanze degli immigrati. Ed è su questo terreno che come espressione della sinistra italiana dobbiamo dare un forte impulso di idee e di proposte, proponendo un fronte comune contro le prossime iniziative referendarie xenofobe.

Un'ultima riflessione concerne la comunità italiana e le sue espressioni politiche ed associative. In generale gli italiani in Svizzera non si sono sentiti identificati con "Ivan S", il losco figuro dai forti tratti somatici meridionali-orientali che campeggiava nei manifesti antistranieri. Anzi: qua e là si coglievano espressioni di simpatia per le campagne della destra xenofoba dirette ormai ad altri obiettivi. Le espressioni politiche ed associative degli italiani in Svizzera, a parte qualche appello generico, sono rimaste sostanzialmente silenti, come del resto accade da alcuni anni. Pare che esse siano ormai ridotte a perpetuare riti e tradizioni italiche, a seguire alcune rivendicazioni tutte interne alle nostre collettività, ma risultano incapaci di interloquire con il contesto locale su temi di comune interesse. Gli unici sussulti degli ultimi anni hanno riguardato il voto politico italiano, che ha visto diverse associazioni agire come comitati elettorali di questo o quel rappresentante di turno. Credo, e lo dico anche in senso autocritico, che almeno le organizzazioni politiche del campo progressista debbano seriamente interrogarsi sulle priorità del proprio impegno in loco, rivendicare alla sinistra locale una forte e coerente battaglia per i diritti e la cittadinanza, contro la cultura dell'odio e della divisione propugnata dalle destre. Altrimenti affondiamo tutti: anche in Svizzera!

Cesidio Celidonio,

Sinistra italiana in Svizzera, aderente a SEL

That's

pochezza


Ma ti pare che la prestigiosa testata che rappresenti possa semplicemente (sempliciottamente) riproporci le battute, ancorché antigovernative, di un comico televisivo, che tutti noi abbiamo già visto, rivisto, apprezzato? Codesta è pochezza, che non fa onore alla più antica testata della sinistra italiana.

Marco Ferri,

marco.ferri@marco-ferri.com<mailto:marco.ferri@marco-ferri.com>

Per un nuovo paniere di valute

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista


Il Seul Action Plan contiene un impegno dei paesi del G20 ad «astenersi da svalutazioni competitive sulle monete» che sembra essere un minimo accordo razionale contro le guerre valutarie. In realtà è lontano anni luce dalla necessaria e improcrastinabile riforma del sistema monetario internazionale.

Per dirla con la Angela Merkel «una politica che scommette di mantenere bassi i tassi di cambio e di favorire l'export in modo artificiale, alla fine danneggia tutti». In questo modo si creano inevitabili tensioni e distorsioni che indebolirebbero la ripresa economica globale.

Effettivamente si vive oggi senza un ordine monetario. Lo si sa dal 1971, l'anno in cui il presidente americano Richard Nixon decise di sganciare il valore del dollaro da quello dell'oro e di abbandonare il riferimento alle riserve auree per passare ad un sistema di cambi flessibili. La progressiva regressione dell'economia americana e il suo indebitamento, l'emergere dell'Unione europea e delle nuove potenze economiche dei paesi del Bric hanno successivamente reso sempre più insostenibile il ruolo del dollaro come unico strumento del commercio internazionale.

Tuttavia ancora oggi l'egemonia del biglietto verde c'è ed è sostenuta dal fatto che l'85% delle transazioni mondiali dei cambi ed il 62% delle riserve delle banche centrali sono in dollari. Il flusso di dollari che si registra quotidianamente sui mercati internazionali è di circa 4.000 miliardi. È amaro dover constatare il verificarsi dell'ammonimento dell'allora segretario del Tesoro di Nixon, John Connolly, che affermava: «Il dollaro è la nostra moneta ma è il vostro problema».

Prima si pensava che le riserve monetarie servissero per affrontare situazioni di emergenza valutaria nazionale e per pagare i disavanzi commerciali, oggi invece esse sono diventate quasi delle bolle di liquidità e strumenti di possibili pressioni sulle politiche monetarie dei paesi debitori da parte dei paesi creditori. I paesi emergenti hanno infatti circa 7.000 miliardi di dollari nelle loro riserve, 2.500 miliardi dei quali in possesso della sola Cina.

Mentre la Fed stampa dollari per pagare i debiti, dovremmo riflettere sul fatto che gli Usa aumentino nel contempo le loro riserve auree. Hanno 8.133 tonnellate di oro nelle loro riserve monetarie, mentre la Germania ne ha 3.412 , la Francia e l'Italia circa 2.450 ciascuna e la Cina 1.050 tonnellate. Il messaggio è chiaro. Non può essere frainteso: voi vi tenete i dollari, il cui valore sarà tutto da scoprire, noi l'oro, il cui prezzo è passato dai 34 dollari l'oncia del fatidico 1971 agli attuali 1.400 l'oncia! È un evidente atto di difesa contro il rischio di possibili grandi rivolgimenti.

Ciò pone con urgenza la necessità di riformulare l'intero sistema monetario internazionale. L'era del dollaro sta volgendo alla fine. Da tempo, non solo noi, sosteniamo la necessità di creare un paniere di valute. Al dollaro sarebbe opportuno affiancare altre monete come l'euro, lo yen giapponese, lo yuan cinese e nuove monete di riferimento di blocchi regionali emergenti per un nuovo e più regolato sistema dei cambi, dei pagamenti internazionali e delle riserve. Un sistema che deve combinare mercato e regole da parte degli stati che vi aderiscono.

Recentemente anche il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, lo ha proposto sulle pagine del Wall Street Journal.

In questo campo l'Europa, che è stata troppo ai margini delle discussioni anche nell'ultimo summit di Seul, potrebbe avere un ruolo molto importante e trainante. Prima di arrivare alla moneta unica, nel 1979 si istituì il Sistema Monetario Europeo (Sme) che potrebbe essere considerato per il nuovo sistema monetario mondiale multi polare. Lo Sme nasceva dopo il crollo del sistema di Bretton Woods e mirava a rafforzare l'unione dei paesi europei e a contenere le fluttuazioni tra le monete dell'allora Comunità Europea all'interno di una fascia di oscillazione del 2,25%. Fu creata anche un'unità di conto sintetica, l'Ecu, basata su un paniere di monete Cee in relazione alla loro forza economica e all'oro. È stato un sistema che ha funzionato abbastanza bene fino al 1992 quando cominciò a sfidare l'egemonia solitaria del dollaro e fu distrutto dalla speculazione più incontrollata.

Oggi un sistema monetario multi laterale basato su un paniere di monete e sull'oro non è più soltanto un'opzione desiderabile. È un'ineludibile necessità per evitare la crescente volatilità monetaria e finanziaria e per scongiurare atti di protezionismo aggressivo e il rischio di vere e proprie guerre monetarie.

giovedì 2 dicembre 2010

Una tassa sulle transazioni finanziarie

ECONOMIA
nelmerito.com

130 economisti italiani hanno firmato un appello per la l'introduzione di una tassa sulla transazioni finanziarie (TTF). L'idea di un provvedimento di questo tipo circola da alcuni decenni, sotto svariate forme, partendo dalla cosiddetta Tobin Tax

di Roberto Tamburini

Centotrenta economisti italiani (tra cui il sottoscritto) hanno firmato un Appello per la l'introduzione di una tassa sulla transazioni finanziarie (TTF).  L'idea di un provvedimento di questo tipo circola da alcuni decenni, sotto svariate forme, partendo dalla cosiddetta Tobin Tax, che porta il nome di uno dei più influenti economisti della generazione keynesiana, Premio Nobel del 1981. Questa volta il fronte favorevole va molto oltre alcuni circoli accademici demodé, movimenti terzomondisti o no global. Questa volta sono in prima fila alcuni capi di governo (come Sarkozy e Merkel), e di istituzioni internazionali (Barroso). In Italia è stato presentato un progetto di legge (20-10-2010) sostenuto da un ampio fronte bipartizan. Ecco perché è il momento di sostenere questa proposta.

    L'Appello espone sinteticamente le ragioni in favore della TTF, definendola "una questione di civiltà"1. Siccome questo genere di provvedimento non ha mai avuto successo planetario, infrangendosi contro cortine di obiezioni di principio, tecniche o pratiche, oltre che contro l'istintiva allergia della maggioranza della professione per interventi fiscali, l'Appello si apre con una serie di considerazioni alternative a tali obiezioni tradizionali, con rimandi ad alcuni interessanti studi empirici, tra cui uno del Fondo monetario internazionale (Thornton Matheson, "Taxing Financial Transactions: Issues and Evidence"). A questo proposito, nell'Appello viene opportunamente ricordato che varie forme di TTF sono già in vigore in 23 paesi del mondo, principalmente con lo scopo di finanziare i costi di funzionamento delle Borse locali.

    "L’entità delle somme raccolte varia sensibilmente ed arriva dallo 0.4 percento del Regno Unito nel 2009 sino al 2.1 percento del Pil nel caso di Hong Kong nel 2008. Numerose ricerche hanno studiato gli effetti della tassa dal punto di vista teorico. Alcuni critici temono che essa possa ridurre il valore delle attività finanziarie sottostanti, far crescere il costo del denaro e persino aumentare e non ridurre la volatilità dei mercati riducendo volumi e liquidità delle transazioni. Le simulazioni effettuate evidenziano però che l’impatto di una tassa molto piccola (dall’1 al 5 per 10000) avrebbe un effetto pressoché nullo sul valore delle attività finanziarie e sul costo del capitale. Inoltre gli effetti perversi sulla liquidità e sulla volatilità generati dalle modifiche dello spread tra denaro e lettera sarebbero tutt’altro che certi e dipenderebbero dalla forma di mercato degli intermediari di borsa".

    Detto che gran parte delle obiezioni tecniche e pratiche non sono corroborate da una solida evidenza empirica, rimane aperta la discussione su due punti cruciali: primo, il motivo per cui introdurre una TTF; secondo, il suo utilizzo. Il fatto che una TTF non sia nociva non è sufficiente per dire che sia utile. L'Appello tratta in misura limitata il primo punto, mentre dà molto rilievo al secondo. Il motivo più popolare a sostegno di una Tobin Tax è sempre stato quello della "lotta contro la speculazione finanziaria". Dati i tempi, non occorre sprecare tempo per spiegarne l'appeal politico da parte di capi di governo schiacciati tra la lobby finanziaria internazionale, i costi pubblici esorbitanti dei salvataggi del 2008-09, e il malcontento dei contribuenti elettori. Su questo punto, l'Appello è più specifico e motivato, e ci tornerò tra breve. Quanto all'utilizzo del gettito della TTF, nell'ipotesi più conservativa stimato intorno ai 200 miliardi di dollari, l'Appello punta decisamente sul "finanziamento di beni pubblici globali", come scolarizzazione, salute, nutrizione, microcredito e microfinanza. Anche qui non mancano variegate obiezioni intorno alla inefficacia o nocività degli aiuti internazionali, che l'Appello prende in considerazione. La chiave risolutiva rispetto al problema dell'efficacia degli aiuti si può sintetizzare in questo modo: una piccola imposta, prelevata a molti e distribuita a molti. Una tipica imposta liberal, insomma. Il modello di erogazione degli aiuti, naturalmente, è quello di successo del microcredito alla Yunus, ma non solo.

    Non mi soffermo più a lungo su questo tema, anche se è quello a cui viene dato maggior peso, perché vorrei invece tornare al punto relativo alle ragioni tecniche per introdurre, oggi, una TTF. Come dicevo, l'Appello dice qualcosa in più, ma non abbastanza, rispetto alla tradizionale "lotta alla speculazione finanziaria". Uno slogan, per la verità, che non ha mai portato fortuna ai movimenti pro Tobin Tax, anche perché, obiettivamente, debole e di difficile concretizzazione e realizzazione. L'Appello fa riferimento, en passant, ad un punto più specifico: "rallentare il volume via via crescente degli scambi ad alta frequenza in borsa effettuati automaticamente dagli algoritmi dei computer. Solo dal 2006 al 2009 il volume di queste transazioni automatiche è aumentato dal 30 al 60 percento sul totale degli scambi". Si tratta, invece, di un punto importante, che va al di là del segmento degli scambi computerizzati, e che va inserito nel quadro più generale delle ridefinizione degli strumenti di regolazione dei mercati finanziari seguita alla crisi.

    Per rendere più chiaro l'argomento, farò ricorso all'efficace analogia proposta da una nota economista finanziaria, Sheri Markose, dell'Università di Exeter (Gran Bretagna) in una recente conferenza internazionale tenutasi all'Università di Macerata: il rischio finanziario è diventato come l'inquinamento industriale. Nei manuali di economia pubblica si trova, immancabilmente, l'esempio di una fabbrica che, con i suoi scarti, inquina un fiume che passa nelle vicinanze, creando un danno per i cittadini del villaggio a valle, che nulla hanno a che vedere col business della fabbrica. L'esempio introduce al tema delle esternalità negative, gli effetti negativi indiretti su terzi dell'attività economica di un soggetto, tema che a sua volta rientra nella parte del manuale che tratta di uno dei fondamenti dell'economia pubblica, la correzione dei cosiddetti "fallimenti del mercato".

    Non ho intenzione di addentrarmi qui in questa materia altamente sofistica, ma forse chi ci legge e non è un economista di professione (cosa che auspichiamo) vuole capire meglio in che senso l'inquinamento industriale del fiume è, oltre che un problema ambientale, un "fallimento del mercato". La risposta, se si riesce a dire in parole semplici, è questa. Il prezzo di mercato a cui la fabbrica vende il suo prodotto comprende tutti i costi di produzione diretti (materie prime, salari, interessi, ecc.) ma non quelli dell'uso del fiume come discarica. Quindi, il prezzo di mercato è più basso di quanto sarebbe se includesse anche il costo di utilizzo del fiume, mentre la quantità fabbricata e venduta del prodotto è più alta. In senso preciso, possiamo dire "troppo alta". Una soluzione possibile, anche se non l'unica, è l'introduzione di un'imposta di fabbricazione che, per quanto possibile, trasferisca sul prezzo di vendita il "costo ombra" dell'utilizzo del fiume. Il risultato atteso è prezzo più alto, e consumo, produzione, inquinamento più bassi. Il prototipo di queste imposte è la carbon tax, che nelle sue molteplici incarnazioni ha avuto, e ha, un ruolo rilevante nelle politiche ambientali.

    Che c'entra l'inquinamento del fiume col rischio finanziario? Secondo la teoria dei mercati finanziari efficienti, non c'entra nulla. Infatti, il prezzo di mercato di prodotti finanziari rischiosi, dice la teoria, "incorpora" la valutazione della rischiosità, che viene per intero, e consapevolmente, trasferita sul compratore. Se il compratore subisce dei danni a causa del rischio contenuto nel prodotto ne paga le conseguenze, così come avviene coi rischi della guida di un auto (per altro, i rischi si possono assicurare, ecco perché i prodotti finanziari assicurativi derivati sono tenuti in così alta considerazione e stima dagli esperti, a differenza della quasi totalità della rimanente popolazione). In questo tipo di mercato ideale, il rischio non è mai "troppo" per ogni singolo soggetto, non ci sono esternalità negative, tutto viene "internalizzato" dal prezzo, e non c'è nessuna buona ragione pubblica d'interferire con esso.

    Se ora rileggete bene il paragrafo precedente, anche se non siete esperti di finanza ma avete letto i giornali, e magari in particolare NelMerito, negli ultimi due anni, vi accorgete sicuramente che la crisi del 2008-09 ha mostrato, oltre ogni ragionevole (disinteressato) dubbio, che il mercato finanziario globale ha prodotto risultati opposti a quelli previsti. La gran parte degli esperti ci ha spiegato che 1) produttori e consumatori di prodotti finanziari hanno assunto "troppi rischi", 2) i prezzi di questi prodotti erano drasticamente sbagliati, cioè non incorporavano una valutazione corretta del rischio, 3) c'è stata una crescita vertiginosa della produzione e dello scambio di questi prodotti, e quindi della massa totale di rischio (il cosiddetto rischio sistemico, o non diversificabile), 4) i prodotti e i mercati assicurativi derivati hanno contribuito al, e sono stati travolti dal, gigantesco fallimento del mercato, in quanto hanno alimentato l' "illusione finanziaria" più letale, la scomparsa del rischio (la nostra assicurazione auto non fa diminuire il rischio di un incidente o di un furto).

    Ciascuno di questi quattro fenomeni ha, a sua volta, delle cause più profonde; ma qui mi preme solo rilevare come essi abbiano reso il rischio finanziario molto più simile all'esempio della fabbrica inquinante del manuale di economia pubblica, che a quello del mercato efficiente del manuale di finanza. Sarà un caso, ma proprio nell'epicentro del "disastro ambientale", gli Stati Uniti, si è coniato il termine di toxic assets. Manca solo un ultimo elemento per completare il quadro: l'esternalità negativa. Eccola: si chiama contagio finanziario, un fenomeno noto dai tempi delle crisi bancarie scudate da Walter Bagehot (1826-1877), puntualmente verificatosi su scala planetaria nell'ultima crisi. Il villaggio a valle della fabbrica del rischio inquinante è composto dalla moltitudine di soggetti non direttamente coinvolti nella produzione e scambio dei prodotti tossici, ma che sopportano i costi del disastro ambientale: si va dai clienti (e dipendenti, azionisti, ecc.) d'istituzioni finanziarie sane (in genere, banche tradizionali collocate in posizioni periferiche) ai contribuenti che devono pagare il conto del risanamento.

    Alla luce di questi fatti, che possono essere ricostruiti e analizzati in maniera molto più approfondita, dovrebbero essere gli scettici a dover spiegare perché non introdurre una carbon tax finanziaria. Tocco rapidamente uno solo degli argomenti degli scettici, forse il più classico: la TTF sarebbe controproducente, perché viene trasferita sul prezzo (la pagano i piccoli risparmiatori finali) e riduce i volumi di transazioni (il mercato è meno liquido). Ebbene, questi sono proprio gli effetti attesi e desiderabili di una carbon tax. I piccoli risparmiatori possono essere poco lieti di pagare un po' di più servizi e prodotti finanziari, e utilizzarne di meno, ma questo è il modo per ridurre la loro esposizione al rischio, visto che non lo fa il mercato (o, più maliziosamente, il loro promotore finanziario). Il mercato sarà pure meno liquido, ma se la liquidità prosciugata è quella tossica, il risultato finale è desiderabile socialmente. Vorrei sottolineare che se l'obiettivo è questo, l'intervento fiscale corretto è proprio una TTF, e non un'imposta sui profitti degli intermediari finanziari, che non discrimina tra chi produce inquinamento finanziario e chi no. Anzi, un punto di forza di una TTF efficiente ed efficace può essere quello di andare a sostituire altre imposte.

    Si può obiettare che alti volumi di scambi non sono di per sé causa sufficiente dell'inquinamento finanziario; vero, ma essi sono una buona approssimazione, per ragioni tecniche che non è possibile approfondire qui, sia dell'accumulazione del rischio che della sua diffusione (vedi punto 3 precedente). Ricordo solo, a titolo di esempio, che nel momento del fallimento Bear Stearns (la prima vittima illustre della crisi) aveva qualcosa come 150 milioni di posizioni aperte con 5000 controparti, e che queste posizioni erano cresciute costantemente negli anni precedenti. Infine, una chiara identificazione degli obiettivi della TTF qui indicati ne renderebbe più semplice la comunicazione, e la scelta dell'utilizzo del gettito, tra cui includerei la costituzione di fondi di sicurezza, garanzia, risanamento, ecc., in alternativa al dispendio netto di risorse pubbliche aggiuntive.

    Queste considerazioni non devono far pensare che basti introdurre una TTF per risolvere il problema dell'inquinamento finanziario. Prima di tutto, ci sono molti problemi tecnici, seri e reali, che vanno affrontati per renderla efficace. In secondo luogo, essa va introdotta nel quadro più generale della riforma degli istituti e dei sistemi di regolazione e regolamentazione dei mercati. Tuttavia, non ricordo di aver mai letto argomenti tecnici forti contro una TTF che non fossero ribaltabili su qualunque altra imposta sulle transazioni, dall'IVA alle carbon tax vere e proprie. Mi pare giunto il tempo di smettere di credere e far credere che il mercato finanziario globale sia il regno intoccabile dell'efficienza e che, di conseguenza, qualsiasi "interferenza" sia inevitabilmente peggiorativa.   

Da Seul con un nulla di fatto

Economia
a cura di ItaliaOggi

Il G20 di Seul si è concluso con un colossale nulla di fatto.
Anzi possiamo dire che rappresenta un passo indietro
rispetto agli impegni presi nei summit precedenti.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

Il problema più recente della crisi globale, cioè il rischio di uno scontro sui mercati dei cambi e tra le monete, è stato accantonato per evitare una rottura internazionale. È una sostanziale ammissione di impotenza del G20, confermata anche dalla decisione di proseguire con incontri annuali invece che semestrali.

    Il prossimo G20 infatti si terrà in Francia a fine 2011. Sempre che non si verifichi qualche nuova emergenza. Anche sul fronte della riforma finanziaria e della governance si deve ancora passare ai fatti.

    Senza entrare nel merito della portata e dell'efficacia delle proposte, si può dire che Mario Draghi, in qualità di presidente del Financial Stability Board, ha correttamente sintetizzato la questione. Ha detto: «Abbiamo fatto molto, in breve tempo, con le regole. Ora occorrono le leggi». I governi e i parlamenti devono quindi approvare le leggi di attuazione per non lasciare solo sulla carta il lavoro finora fatto.

    In realtà il G20 è stato paralizzato dalla decisione, presa qualche giorno prima in modo autonomo dalla Federal Reserve di immettere nuova liquidità per ben 600 miliardi di dollari. Essa dovrebbe servire ad acquistare titoli di stato americano, mantenendo sempre più bassi i tassi di interesse per favorire la domanda e la ripresa dell'economia Usa. Le autorità americane hanno giustificato tale scelta con la mancata rivalutazione dello yuan cinese che penalizzerebbe le esportazioni Usa, favorendo nel contempo quelle cinesi.

    A nostro avviso tale affermazione non è del tutto fondata. In verità se c'è qualcuno che in questi giochi dei cambi rischia di essere penalizzato è l'Europa con il suo euro forte. Il bombardamento mediatico intorno alla ritrosia cinese sulla flessibilità del tasso di cambio è servito da cortina fumogena per presentare come inevitabile e necessario il «fait accompli» della Fed di stampare altra moneta.

    Basta la semplice lettura dei dati economici relativi alla bilancia commerciale americana per capire la portata meramente finanziaria dell'operazione. Nel periodo gennaio-settembre 2010, gli Usa hanno accumulato un deficit commerciale di circa 380 miliardi di dollari. Ma il problema è ben maggiore in quanto dalla composizione delle esportazioni americane emerge che esse sono rappresentate per il 30% da servizi, in particolare finanziari e assicurativi. che vantano un avanzo di oltre 110 miliardi. I settori produttori dei beni di consumo e dei beni capitali, invece, insieme registrano un disavanzo di quasi 500 miliardi!

    Gli Usa, per esempio, spendono 190 miliardi di dollari solo per importare petrolio grezzo. Se è vero che 200 miliardi del deficit relativo ai beni sono nei confronti della Cina, è altrettanto vero che i restanti 300 miliardi riguardano il resto del mondo: 60 verso l'Eu, 42 verso il Giappone, ben 45 miliardi verso l'Africa, ecc. Forse il dato che meglio rivela i problemi dell'economia americana è il deficit di 56 miliardi di dollari nel settore dei prodotti «advanced technology», ad alta tecnologia.

    Dovrebbe essere lapalissiano che la nazione più avanzata del mondo non può avere un deficit commerciale nelle tecnologie! Gli unici settori tecnologici che ancora «tengono» sono quelli dove gli Usa godono di un monopolio storico: quello aeronautico e quello bellico, che può contare su un budget ufficiale di oltre 700 miliardi di dollari (senza considerare gli extra).

    Perciò l'economia americana non arranca perché il valore dello yuan è basso e tanto meno può riprendere quota attraverso le svalutazioni competitive del dollaro. Come ha recentemente sostenuto Wolfang Schaeuble, il ministro delle Finanze tedesco, «il modello di crescita all'americana è nel mezzo di una crisi profonda». Non c'è stata una distorsione del sistema, ma si è all'inizio della fine di un modello insostenibile.

    Ciò non ci rallegra. Ma a Seul il presidente Barack Obama, sconfitto alle elezione di medio termine, è sembrato appiattirsi sulle posizione della Fed. Solo pochi mesi fa, presentando il bilancio 2011, aveva denunciato il fatto che il «moral hazard» del mondo finanziario e bancario avesse fatto lievitare il debito pubblico di ben 3.000 miliardi di dollari portandolo alla vetta dei 12.000 miliardi. Evidentemente il peso dei signori della finanza è ancora intatto. In America e non solo.