mercoledì 17 giugno 2009

Liberismo in crisi, e dopo?

Non solo regole da rivedere, ma anche princìpi. Stelle polari: la Costituzione italiana e i trattati europei, in particolare quello di Lisbona. Ma è fondamentale il recupero del concetto di bene pubblico e di bene comune.


di Edoardo Reviglio *)


Vi sono importanti segnali che indicano la necessità di rivedere il paradigma di politica economica che ha dominato in questi ultimi vent’anni in una gran parte dei paesi del mondo. Vi è chiara la percezione che qualcosa non ha funzionato e che quindi è necessaria una revisione e una trasformazione non solo delle regole, ma forse anche dei princìpi. Come sempre avviene nell’evoluzione dei fenomeni della storia, la crisi è occasione di ripensamento. Il ripensamento, da un punto metodologico, deve essere basato su due indirizzi di fondo. Quello dell’analisi dei fatti (dell’esperienza) attraverso una seria indagine empirica dei fenomeni, e quello della ricerca teorica di nuovi modelli. Secondo questo metodo intende lavorare il gruppo di studio recentemente costituito dalla Cgil e composto di personalità provenienti da diverse discipline, inclusi gli storici, per riflettere sui diversi ambiti di intervento dello Stato nell’economia alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo e società. Obiettivo dell’iniziativa è quindi quello di tentare di disegnare un nuovo quadro di politica economica per il nostro paese e per l’Europa.

La filosofia di fondo - Riferimento obbligato e "stella polare" della filosofia di fondo del gruppo di studio è il modello di società contenuto nella Costituzione della Repubblica italiana e nei Trattati europei, in particolare quello di Lisbona. La modernità della Costituzione italiana non pare in discussione. Essa va quindi "recuperata" e vanno rivisti tutti quegli ambiti contenuti nelle leggi speciali e di settore, che sono state introdotte sull’onda "privatista" di questi ultimi due decenni, e che sono, spesso, in contrasto con il modello stesso contenuto nella nostra Costituzione. Sul successo dei Trattati europei, che dovrebbero rappresentare il futuro, non sembra esserci, invece, unanime consenso. I Trattati che hanno definito il percorso verso la nascita dell’Eurosistema, hanno messo in seria difficoltà il sistema di Stato sociale e di economia mista su cui invece si fonda la nostra Repubblica. Vi sono, invero, stretti vincoli di finanza pubblica che l’Europa, anche giustamente, ci costringe a rispettare. Questi non possono essere sottovalutati, anche se esistono, come vedremo, aldilà delle privatizzazioni, interessanti possibilità di "ampliare" le disponibilità di risorse pubbliche comuni tramite nuovi strumenti di finanza pubblica europea.

Un altro punto qualificante del nuovo programma riguarda il recupero del concetto di bene pubblico e di bene comune (commons). In quest’ambito va sottolineata la recente proposta della Commissione Rodotà per la riscrittura dei princìpi generali che sovrintendono alla natura, proprietà e gestione dei beni pubblici. La salvaguardia e lo sviluppo dei beni comuni e dei beni della proprietà pubblica, riconsiderati nella loro varietà – che va dalle attività immateriali, che includono attività finanziarie pubbliche (liquidità, crediti, e partecipazioni in imprese), altri beni immateriali, come i brevetti, i marchi, i prodotti della ricerca e dello sviluppo, lo spettro delle frequenze; alle attività fisse, come gli immobili e i terreni, le infrastrutture, le risorse naturali, i beni culturali, i beni della difesa e altro ancora – possono diventare occasione di un ripensamento profondo, anche per stimolare l’innovazione tecnologica e culturale, in direzione dei nuovi bisogni e servizi sociali. La riforma dei beni pubblici – di cui l’Italia, come noto, è straordinariamente ben dotata – può quindi diventare punto qualificante di una nuova proposta di politica economica. Riscrivere i princìpi generali sulla gestione dei beni pubblici significa rivedere, trasformare e modernizzare la costituzione materiale del paese.

Il tema della partecipazione - Altro punto centrale della nostra riflessione riguarda i problemi della partecipazione dei lavoratori alla vita e al governo delle imprese, con un recupero del concetto di impresa "comunità", sulle linee delle riflessioni, per esempio, contenute nel pensiero di Adriano Olivetti, insieme ad alcune esperienze estere, quale la co-determinazione tedesca. Tutto ciò, non solo per ottenere una migliore distribuzione economica dei profitti delle imprese tra detentori dei capitali e lavoratori, ma anche, e soprattutto, al fin di fare maturare nuove istanze cooperative e comunitarie nell’associazione di lavoratori in imprese-organismi e non più in imprese "nessi di contratti", teleologicamente costruite principalmente per massimizzare i profitti del capitale, cercando di comprimere, parallelamente, il più possibile, i costi dei fattori di produzione, gli investimenti, ma soprattutto il lavoro.

Un nuovo concetto di qualità della vita - Nella ricerca delle finalità dell’azione pubblica in una moderna società policentrica e solidale, è necessario ridefinire, e concentrarsi, su un nuovo concetto di qualità della vita. Tale concetto va inteso secondo una visione che vada aldilà del mero benessere materiale - economico - pecuniario - in modo da includere valori come, ad esempio, il diritto di libertà e integrità personale, l’aver tempo libero, i valori comuni artistici e culturali e del sapere e i beni ambientali e naturali, i "valori privati", i diritti civili e politici, gli affetti famigliari e dell’amicizia, la generosità, il volontariato e la solidarietà umana, la dignità e la stabilità del posto di lavoro, e altro ancora. Tutto ciò va realizzato attraverso politiche che siano orientate al lungo periodo e che siano, perciò, inter-generazionali. Altri ambiti decisivi dell’azione pubblica sono il funzionamento del mercato del lavoro, la correlazione concorrenza/politiche economiche e industriali, e il funzionamento equo (e di lungo periodo) dei mercati finanziari e assicurativi. In sintesi, i principali temi che su cui ci si propone quindi di riflettere sono: lo Stato e le imprese pubbliche; le privatizzazioni e una valutazione dei risultati per il sistema economico, industriale e sociale del nostro Paese; (dal punto di vista storico) i sistemi dell’economia mista nel capitalismo europeo del Novecento; il nuovo sistema finanziario italiano, gli assetti proprietari delle imprese e la protezione del risparmio; il governo democratico dell’economia e la pianificazione economica ed industriale; lo Stato regolatore e la concorrenza; il rapporto tra capitale e lavoro: le diseguaglianze accresciute e la nuova questione della redistribuzione dei redditi; la finanza pubblica e i vincoli di bilancio; la necessità di riqualificare la pubblica amministrazione; i beni pubblici, i beni comuni, il patrimonio pubblico. In questo contributo, considerati i limiti di spazio, mi limiterò a una breve considerazione storica sull’ascesa (nel secondo dopoguerra) e sul declino (negli anni ottanta) del modello europeo dell’economia mista e dello Stato sociale.

Splendore e declino dell’Età dell’Oro - Guardando indietro è legittimo domandarsi quale fosse l’interesse, e da parte di chi, di porre fine alla cosiddetta Età dell’Oro (1945-1970) e di cambiare la rotta rispetto a un modello che aveva avuto tanto successo per oltre una generazione. A livello astratto, teorico, i molti che avevano in mente le disastrose esperienze degli anni dell’iper-inflazione e il caso dell’America Latina, pensavano, in buona fede, che se non si fosse riusciti ad abbattere l’inflazione sarebbe stata la fine delle speranze di prosperità e pace sociale. Tuttavia, nel mondo avanzato, in quel storno di tempo, non c’erano segni di unatale iper-inflazione e quindi le ragioni di chi ha sostenuto il cambiamento vanno ricercate, probabilmente, tra considerazioni molto meno "nobili" e molto più "terrene". Va osservato, in questo contesto, che non tutti avevano beneficiato dell’Età dell’Oro. Vi era stata, non dimentichiamolo, una forte contrazione dei profitti, e al declino dei profitti era associata una significativa perdita di potere sul mercato del lavoro da parte dei proprietari e dei controllori del capitale.

Avvenne così, che nella seconda metà degli anni Settanta, si incominciò a pensare che, come il keynesianismo aveva unito alcuni degli ideali della sinistra, così il monetarismo sarebbe diventato facilmente l’ideologia abbracciata dalla destra. Oltre ad avere il vantaggio di "restituire" al capitale il potere sul lavoro, il monetarismo aveva alcune altre caratteristiche che lo rendevano molto desiderabile per i suoi sostenitori.

Ora, poiché, secondo i suoi insegnamenti, l’inflazione può essere tenuta sotto controllo nel modo migliore attraverso strumenti monetari, e poiché sono i governi che sono responsabili della creazione di inflazione della moneta attraverso la creazione eccessiva di debito a causa degli squilibri nei bilanci pubblici, ovvero spendendo di più di quanto raccolto con le tasse, tagliare la spesa pubblica diventò il principale ingrediente della politica monetarista. Quale migliore giustificazione per ridurre i programmi dello Stato sociale? In molti incominciarono a sostenere che fossero i generosi benefici alla disoccupazione che permettevano ai sindacati di teneri alti i salari mentre, fuori al freddo, c’era un esercito di disoccupati pronti a lavorare anche per salari molto più bassi. Il taglio dei benefici ai disoccupati, insieme ai tagli nella spesa sociale, avrebbero dato conforto ai cittadini che pagano le tasse, ridotto le pressioni inflazionistiche, e nello stesso tempo avrebbero restituito potere ai datori di lavoro sulle proprie maestranze. Un nuovo indirizzo veniva così intrapreso in quasi tutti i paesi per invertire i processi di nazionalizzazione, privatizzando i benefici sociali e le imprese pubbliche. L’impeto verso tali processi derivava dalla nozione, del tutto dottrinaria, che il privato è sempre e comunque più efficiente del pubblico. Ma non può essere nascosto il fatto che, in realtà, le privatizzazioni avrebbero aumentato le opportunità per i privati di fare profitti, e questa era forse la principale motivazione di queste nuove politiche.

È così che la storia della politica economica europea è molto cambiata negli ultimi vent’anni. Sono entrati in gioco vari fattori. Su quello intellettuale, che ha visto la teorizzazione e la realizzazione degli strumenti e delle istituzioni dello "Stato Regolatore", hanno inciso i Trattati europei. In particolare su due fronti. Primo, la disciplina della concorrenza necessaria per la "convergenza competitiva" su cui si basava il processo di unificazione contenuto nel Trattato. Parte integrante di tale disciplina è il divieto degli aiuti di Stato che rende la proprietà pubblica delle imprese molto meno efficace e necessaria. Il secondo è il Trattato di Maastricht. Per entrare nell’euro era necessaria una politica fiscale restrittiva, anche rispetto alla riduzione dei debiti pubblici. Per fare questo non vi era altra possibilità che vendere le aziende di Stato. Ciò, dal punto di vista ideologico, avrebbe richiesto due cose: abbracciare l’ideologia delle privatizzazioni e del capitalismo finanziario anglosassone e accettare come "positivo" il passaggio di molte attività pubbliche alla sfera privata, semplicemente perché non vi erano più le risorse per mantenerle direttamente in mano del pubblico a causa della necessità di ridurre la spesa pubblica per entrare in Europa. Sui risultati di questi processi è ora necessario aprire una riflessione seria, basata su dati empirici e senza pregiudizi di carattere ideologico, per capire se non sia necessario rivedere queste trasformazioni che non sembrano aver realizzato gli obbiettivi che avevano promesso.

Conclusioni - In conclusione, la costituzione economica e fiscale (Ordo) deve diventare in parte un compito di cooperazione mondiale. La solidarietà, che nasce dal principio un uomo un voto, appare invece un compito nazionale e per noi europeo. Su queste basi sarà interessante scoprire cosa emergerà da una riflessione a tutto campo che include studiosi di diversi orientamenti a appartenenti a diverse discipline. Qualcosa, tuttavia, li unisce; la consapevolezza che siamo a un momento di svolta, che il futuro non potrà essere uguale al passato, ma che la costruzione del futuro non può prescindere da una seria analisi empirica e teorica dei punti di forza e di quelli di debolezza delle esperienze del recente, e meno recente, passato.


*) Editorialista di Rassegna.it - sito Cgil d’informazione quotidiana, specializzato in lavoro, politica ed economia sociale.