mercoledì 23 marzo 2011

Rischio speculazione sulla ripresa

Economia
a cura di ItaliaOggi

Boom di alimentari e materie prime,difficile uscire dalla crisi

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

Occorre dare atto della correttezza di analisi fornita dal ministro dell'economia e delle finanze Giulio Tremonti quando in occasione di un recente incontro in Turchia ha stigmatizzato il ruolo della speculazione dietro l'impennata dei prezzi delle materie prime e dei beni alimentari. Ha giustamente anche denunciato il depistaggio del Fondo Monetario Internazionale che perfino nel giugno 2008 negava con forza un qualsiasi ruolo della speculazione sui mercati delle commodity.

    Tranne alcune voci indipendenti, la stragrande maggioranza degli economisti ufficiali tende, purtroppo, ad allinearsi alle posizioni del Fmi e a minimizzare il peso delle dinamiche speculative.

    Come spiegare allora l'aumento delle operazioni in derivati finanziari sulle commodity?
    I cosiddetti valori nozionali dei contratti derivati Otc sulle commodity sono triplicati tra il giugno 1998 e il giugno 2003. Nei 5 anni successivi sono poi aumentati di 19 volte. A giugno 2008, cioè nel pieno della crisi finanziaria, erano infatti 13 trilioni di dollari! Si ricordi che nel 1998 essi rappresentavano l'1,5% del Pil mondiale. Dopo 10 anni tale percentuale è salita al 21,6%!

    La crisi ha fatto un po' sgonfiare la bolla, la cui crescita però è ripresa. Nel 2010 nei mercati delle commodity, da Chicago a Singapore a Johannesburg, le operazioni in derivati sulle materie prime e sui beni alimentari hanno fatto registrare aumenti del 10-20% rispetto all'anno precedente.

    Quando il volume dei derivati diventa sproporzionato rispetto ai beni reali sottostanti, essi non svolgono alcun ruolo di copertura o di assicurazione rispetto ai rischi di variazione dei prezzi. Né si possono giustificare dicendo che creano maggiore liquidità e quindi maggiore dinamismo dei mercati. Al contrario, secondo noi, creano un «effetto orda», accentuando le aspettative di aumento dei prezzi.

    Certo, la domanda dei paesi emergenti, Cina in testa, è e resterà crescente. Ma è una domanda prevedibile a cui le capacità produttive mondiali possono rispondere positivamente. Ciò non giustifica aumenti repentini dei prezzi. Gli incendi avvenuti in Russia nei passati mesi di luglio e di agosto possono avere avuto un influsso sui prezzi, ma non spiegano gli aumenti dei mesi precedenti.

    Secondo la Fao negli ultimi 12 mesi i prezzi dei cereali di base della dieta mondiale (grano, riso e mais) sono aumentati del 70%. È un aumento non spiegabile con il solo meccanismo della domanda e dell'offerta. Un altro sviluppo negativo nel medio periodo potrebbe essere una lievitazione determinata dal fatto che si stima che nel 2020 circa il 13% di tutta la produzione mondiale di cereali potrebbe essere usato per produrre etanolo. Sono distorsioni del settore alimentare che dovrebbero essere corrette.

    Si ricordi che, secondo le stime della Confederazione Italiana Agricoltori, l'Italia importa il 40% del grano duro, per il 60% del grano tenero, per il 15% del mais, per il 90% della soia e per il 50% delle carni. Perciò l'aumento dei prezzi alimentari internazionali sarebbe doloroso per i consumatori italiani. Anzi bisogna rilanciare anche in Italia ed in Europa una seria politica agricola che punti sulla qualità e sui redditi degli agricoltori e degli allevatori.

    Oltre ai beni alimentari, tutti i prezzi delle materie prime sono in fibrillazione in quanto oggetto di attenzioni morbose da parte degli speculatori. In primis il prezzo del petrolio che gioca un effetto diretto e perverso rispetto al costo di produzione dei beni alimentari.

    Se il prezzo del petrolio dovesse attestarsi intorno ai 100 dollari al barile, l'Agenzia Internazionale per l'Energia calcola che la bolletta energetica dell'Unione europea aumenterebbe nel 2011 di 76 miliardi di euro. Per l'Italia si tradurrebbe in un costo maggiore intorno ai 10 miliardi. Allo stato delle cose però l'attuale aumento del prezzo dei carburanti non si giustifica con la drammatica vicenda libica.

    Complessivamente la bolla dei prezzi delle commodity è quindi tornata ai livelli del giugno 2008.
    Oggi però le economie sono molto più deboli, avendo gli stati riversato sui mercati migliaia di miliardi di nuova liquidità per le operazioni di salvataggio e aumentato i debiti pubblici in media del 20% in due anni. Indubbiamente tutto ciò grava sull'economia reale, sull'occupazione e sugli stessi consumi contratti anche a causa della crescente inflazione.

    Preoccupa il rischio della stagflazione, quel mix esplosivo di recessione e di inflazione che frenerebbe ogni exit strategy dalla crisi.

    Resta quanto mai urgente un'organica normativa contro la speculazione. Però noi non condividiamo la scelta di chi parla di un aumento dei tassi di interesse secondo la tradizionale politica monetaria. Essa non avrebbe un effetto reale di calmieraggio dei prezzi. Aumenterebbe invece il costo del denaro e quindi dei titoli del debito pubblico. Si consideri che il semplice aumento dello 0,25% del tasso di interesse da parte della Banca centrale europea comporterebbe per l'Italia un aumento di spesa di circa 4 miliardi di euro.