Il dibattito economico
riceviamo  e volentieri pubblichiamo
Dialogando  con Fassina e Alleva su  MicroMega, Ichino aveva rilanciato il suo progetto di riforma del mercato  del lavoro all'insegna dello slogan "Tutti a tempo indeterminato, nessuno  inamovibile". Ricetta efficace contro la precarietà? Renato Fioretti interviene  (qui e su MicroMega) con una mole notevole di argomenti, alcuni dei quali  introducono elementi di novità nel dibattito in corso  .
di Renato  Fioretti
Da alcuni mesi, mi ero imposto di evitare ulteriori commenti e  valutazioni sul ddl 1481/09 (del senatore Ichino). Lo ritenevo un tema  ampiamente e sufficientemente dibattuto e - dal punto di vista dell'interesse di  tipo giornalistico - già, sostanzialmente,  "archiviato".
    Non avevo previsto che esso potesse  (prepotentemente) tornare "alle luci della ribalta" attraverso una  lettera-aperta di Joseph Fremder, Segretario nazionale di un sindacato autonomo  dei bancari e, soprattutto, grazie ad un dibattito su "Le vie d'uscita dalla  precarietà" - presente nel numero in edicola di "Micromega" - tra Pietro Ichino,  Stefano Fassina e Piergiovanni Alleva.
    Premetto, però, di riprendere la discussione  sulla taumaturgica formula del "Tutti a tempo indeterminato, nessuno  inamovibile", per due ordini di motivi.
    L'uno, perché esplicitamente "chiamato in causa"  dallo stesso Ichino; l'altro, perché stimolato dall'interessante  "triangolare".
    Sul primo punto: il senatore Pd, nel  controreplicare a una lettera aperta del Segretario nazionale della  Falcri-Silcea - rispetto all'accusa secondo la quale la legge 30/03 avrebbe  aumentato il precariato - afferma: "Anche Fioretti, un altro nemico giurato  della legge Biagi, ha tentato di rispondere, ma col risultato di confermare  analiticamente l'esattezza della mia affermazione; la legge Biagi non ha alcuna  responsabilità nell'aumento del precariato nel nostro  Paese".
    Naturalmente, anche se tale dichiarazione  meriterebbe (per l'ennesima volta) di essere contestata nel merito, in  quest'occasione eviterò di farlo. Avverto solo l'esigenza di rilevare che il  confronto che si sviluppò tra di noi, nel novembre dello scorso anno - grazie  all'ospitalità offertaci dal sito web di "Micromega" - fu, da parte mia,  tutt'altro che "un tentativo di risposta".
    Rappresentò, piuttosto, l'analitica  illustrazione, "punto per punto", dei motivi che, ancora oggi, mi inducono a  considerare il decreto legislativo 276/03 - e non la legge 30/03, "evocata" da  Ichino quale legge "Biagi" - un vero e proprio "Supermarket delle tipologie  contrattuali".
    Uno strumento attraverso il quale sono  state rese più precarie alcune forme di rapporti di lavoro già esistenti (in  particolare: somministrazione a tempo determinato, somministrazione di lavoro  per soggetti svantaggiati e disabili, modalità di cessione di ramo d'azienda e  part-time) e istituite nuove tipologie contrattuali, altrettanto precarie,  (somministrazione a tempo indeterminato e contratto  d'inserimento).
    Anzi, a questo proposito, sarebbe auspicabile  che il senatore Ichino si sforzasse di esplicitare con maggiori e migliori  argomentazioni i motivi che, incredibilmente - nel corso del nostro  contraddittorio - lo inducevano a sostenere: "La norma sulla cessione di ramo  d'azienda si colloca in tutt'altro capitolo" (rispetto all'aumento del  precariato) e "Quello del part-time è tema del tutto diverso da quello del  lavoro precario"!
    Queste sì che sono affermazioni tendenti a  negare anche l'evidenza!
    Allo scopo, rispetto al giudizio sulle  conseguenze prodotte dalla 30/03 e dal 276/03, mi conforta rilevare di essere in  numerosa e qualificata compagnia.
    Tra gli altri, già nel 2006 (intervista a "Il  Manifesto", del 17 febbraio), Piergiovanni Alleva affermava: "Vi sono, però,  leggi non meno importanti dello Statuto, che la legge Maroni, o altri interventi  legislativi del Centro-Destra, hanno stravolto, come la legge 230/62 sui  contratti a termine e il Dlgs. 61/2000 sul part-time. O hanno abrogato, come la  fondamentale legge 1369/1960 che fissava un principio base di ordine pubblico  del lavoro".
    E ancora: " Pietro Ichino ha presentato una  tesi polemica, semplice, ma insidiosa", secondo la quale la legge "Biagi"  avrebbe cambiato poco o nulla in materia di precarietà e mercato del  lavoro.
     "E' vero l'esatto contrario  (sosteneva Alleva) e non si può concedere all'Autore neanche l'attenuante  dell'insufficiente informazione. Si tratta, infatti, di un giurista  specializzato, ben addentro al dibattito di politica del  diritto"!
    Inoltre - per rispetto nei confronti di Marco  Biagi e per tentare di porre fine a un'inutile querelle - è opportuno  evidenziare che, in effetti, è letteralmente sbagliato pretendere di difendere  la legge "Biagi" dall'accusa di aver prodotto un aumento della  precarietà! 
    Lo ritengo (testualmente) inesatto perché  la 30/03 (sistematicamente richiamata quale legge "Biagi"), come noto, è una  legge-delega e, in quanto tale, rappresentò soltanto un insieme di "linee  d'indirizzo" cui il parlamento delegava il governo. Il tutto, a distanza di ben  undici mesi dal vile attentato delle Br!
    E' quindi evidente che, se c'è da difendere un  provvedimento di legge dall'accusa di aver prodotto un aumento della precarietà,  si tratta - senza alcun dubbio - del decreto legislativo  276/03!
    Decreto emanato a distanza di diciotto mesi  dalla morte di Biagi!
    Certo, questo non significa disconoscere a Marco  Biagi la sostanziale "paternità" sui provvedimenti adottati dai governi di  centrodestra in materia di lavoro; si tratta, piuttosto, del tentativo di  rappresentare quanta strumentalizzazione politica sia sottesa all'uso  indiscriminato del suo nome.
    Infatti, anche se profondamente convinto che -  dalle disposizioni previste dal 276/03 al recentissimo "Statuto dei lavori" -  oggi siamo nella condizione di certificare la grande capacità mostrata dal  Legislatore nazionale nel tradurre in norme di legge i principi illustrati da  Biagi nel 2001 (attraverso il "Libro bianco"), ritengo che ogni volta che si  (s)parla di precarietà, abbinare a essa - in una sorta di collegamento  automatico - Marco Biagi, piuttosto che il ministro (all'epoca in carica)  Maroni, rappresenti un'inutile e strumentale  forzatura.
    La sensazione, anzi, la (personale)  certezza, è che si utilizzi il nome del giuslavorista bolognese per comunicare -  urbi et orbi - che criticare i contenuti del Libro bianco, della 30/03 e, ancora  di più, del decreto 276/03, corrisponda a offendere il ricordo e infangare la  memoria di Marco Biagi.
    Niente di più falso e  strumentale.
    Personalmente, rivendico il diritto di  contestare le idee e le proposte di Marco Biagi, senza, per questo, dovermi  sentire nella meschina condizione cui vorrebbe relegarci Sacconi attraverso il  suo macabro anatema: "Il nome di Marco Biagi peserà come una maledizione su  coloro i quali volessero cancellarne l'opera o la memoria"! Quasi che,  criticare, proporre di modificare o, addirittura, abrogare una legge  (impropriamente e strumentalmente, evocata sempre come legge "Biagi") possa  corrispondere a un deicidio!
    Duole, quindi, rilevare che siano ancora tanti  coloro i quali si rendono (anche inconsapevolmente) partecipi di  strumentalizzazioni dal carattere esclusivamente  politico.
    In questo senso, a onor del vero, lo stesso  Ichino non è esente da critiche quando, nel replicare al segretario della  Falcri-Silcea - per difendere la legge "Biagi" - lo invita a non ripetere  "l'errore in cui è caduta la sinistra politica e sindacale in questi otto anni:  quello di demonizzare una legge che non ha alcuna responsabilità nell'aumento  del precariato nel nostro Paese. Anche perché sulla base di quell'errore si è  sparso il sangue di una persona".
    Un "inciso", quest'ultimo, assolutamente  "gratuito" e fuori luogo. Impropriamente (e irresponsabilmente) teso - a mio  parere - ad associare qualsiasi (legittima) posizione di dissenso all'atto di  barbarie prodotto il 19 marzo del 2002! Così come, d'altra parte, aveva già  (subdolamente) fatto Sacconi nei confronti di  Cofferati. 
    Tra l'altro, al riguardo, sarebbe opportuno  tenere presente che, nel nostro Paese, il riferimento alle leggi è sempre  avvenuto attraverso il loro numero cronologico (rispetto all'anno di  approvazione) e/o - in alternativa - richiamando il ministro o il "presentatore"  di turno.
    Senza andare troppo a ritroso, è  sufficiente rilevare che ciò è stato fatto con la legge "Treu" (ministro del  lavoro in carica), con la "Bossi-Fini" (idem), con la legge "Calderoli" (anche  se, giustamente, meglio nota come legge "porcata"), con la riforma "Gelmini",  ecc.
    Perché, quindi - per concludere su questo punto  - insistere con la "Biagi", se non per perpetrare l'uso distorto e strumentale  che, del nome dello studioso spietatamente ucciso, è stato fatto dagli esponenti  del centrodestra? 
    L'altro motivo, che m'induce a riprendere  la discussione sulla proposta Ichino, è rappresentato da alcuni problemi "di  merito" che il confronto ospitato da "Micromega" ha avuto il notevole pregio di  (prepotentemente) riproporre. 
    Mi riferisco, in particolare, all'esigenza  di operare una sorta di "ricapitolazione" della sostanza del problema: cosa è la  precarietà, qual è la condizione di coloro che la vivono, l'ipotesi Ichino  risolve il problema o, piuttosto, servirebbe qualcosa di  diverso?
    In questo senso, se le note (difficili e  generalizzate) condizioni professionali e sociali denunciate da milioni di  lavoratori - costretti (come iconograficamente ama rappresentarli Ichino) in  regime di "apartheid" - offrono già un'esauriente risposta alle prime due  domande, si può tranquillamente rappresentare che cosa significhi, in estrema  sintesi, vivere una condizione di precarietà.
    Una situazione lavorativa condizionata da un  termine di scadenza (della stessa) già noto, o, comunque - anche se in assenza  di un termine prefissato - dall'assoluta impossibilità di un minimo di garanzia  circa la (pur minima e/o eventuale) continuità della prestazione professionale  offerta!
    Senza dimenticare che - in virtù della tipologia  contrattuale "scelta" dal datore di lavoro - ci si può trovare anche di fronte  ad "aggravanti" di notevole entità (senza diritto a ferie retribuite, alla  tutela della malattia, a una previdenza "sufficiente",  ecc.).
    E', quindi, evidente che la condizione di  precarietà lavorativa - tanto quella vissuta dalla stragrande maggioranza degli  "atipici", quanto quella di molti subordinati "non standard" (a tempo pieno e  indeterminato) - finisce per accompagnarsi a una situazione di altrettanta  "instabilità" familiare e sociale.
    In un contesto di questo tipo, la soluzione può  - oggettivamente - essere rappresentata dalla formula del: "Tutti a tempo  indeterminato, nessuno inamovibile", tanto cara al senatore  Pd?
    Altrimenti detto: fermo restando che l'ipotesi  Ichino continuerebbe a non garantire nulla circa la continuità temporale dei  rapporti di lavoro - anzi, per i pochi che avrebbero potuto goderne, verrebbero  meno le garanzie (attualmente) offerte dall'art. 18 dello Statuto - è credibile  che i guasti prodotti dalla precarietà siano miracolosamente risolti grazie  all'istituzione di un indennizzo economico e di un sostegno "alla danese", in  caso di licenziamento?
    O, piuttosto - come sosteneva Eugenio Scalfari  già nel 2006 - si tratta di una costruzione ideologica? Grazie alla quale  "Questo tipo di riforme in realtà rendono impossibile il riformismo, accentuano  il conflitto sociale e politico, si configurano infine come vere e proprie  controriforme condotte all'insegna dell'antipolitica e di opzioni di natura  tecnocratica" (in "La terapia che vuole dissolvere la sinistra", La Repubblica,  18.01.2006)?
    Tra l'altro, a proposito di protezione "alla  danese" - o a livello di qualunque altro paese europeo (spesso richiamati dal  senatore Pd) - in ossequio a quell'onestà intellettuale cui, sovente, lo stesso  invita i propri interlocutori, sarebbe opportuno che Ichino, nel "reclamizzare"  - soprattutto presso i giovani - il suo progetto, alternativo alla situazione  presente nel nostro mercato del lavoro, riportasse anche due elementi di non  trascurabile importanza. 
    Il primo, costituito dal fatto che,  contrariamente a quanto si è (per tanto tempo) cercato di far credere agli  italiani, l'ultimo "Rapporto sull'occupazione in Europa" rileva che il "grado di  rigidità normativa" - che regola i rapporti di lavoro - è, in Italia, più basso  di quello presente in molti dei paesi europei più  avanzati.
    Il secondo elemento - anch'esso indispensabile,  ai fini di una corretta informazione - è rappresentato dalla non irrilevante  circostanza che, negli altri paesi dell'UE a 27, non esiste nulla di  paragonabile al "gran bazar" delle tipologie contrattuali presenti in  Italia!
    Quindi, se è vero (perché "certificato") che -  nonostante la presenza, nel nostro ordinamento, della tutela prevista dalla  (vituperata) "giusta causa" - il grado di rigidità normativa presente in Italia  è inferiore a quello di molti altri paesi europei, diventano stucchevoli le  ricorrenti accuse, mosse all'art. 18 dello Statuto, rispetto al "nanismo" delle  imprese e, addirittura, al "freno" nei confronti  dell'occupazione.  
    Tra  l'altro, rispetto al tema  dell'incremento o meno dell'occupazione, è interessante rilevare che - di là dai  proclami governativi che hanno contrassegnato gli anni successivi all'entrata in  vigore del 276/03, secondo i quali in Italia l'incremento dell'occupazione aveva  superato il milione e mezzo di unità - dall'ultimo trimestre 2003 al  corrispondente trimestre del 2007, prima che la grande crisi economica e  finanziaria sconvolgesse l'Europa, nel nostro Paese il "Padre di tutti i  decreti" aveva prodotto un incremento dell'occupazione pari ad appena 864 mila  unità! 
    Con un tasso di disoccupazione solo  "formalmente" calato dell'1,7 per cento, perché, in effetti, determinato da  circa 400 mila soggetti che, "scoraggiati", avevano abbandonato la ricerca  attiva di un'occupazione. Senza contare che al 1° gennaio 2004, secondo i dati  Istat: " Con la legge 189/02, per l'emersione del lavoro irregolare prestato da  cittadini extracomunitari presso le famiglie, è stata sanata la posizione di  316.489 immigrati; mentre con la legge 222/02 le imprese hanno ufficializzato la  presenza di 330.340 immigrati che lavoravano in  nero"!
    In realtà, il motivo grazie al quale, negli  altri paesi europei - anche in quelli evocati da Ichino - non esistono  lavoratori di serie A e di serie B, non è (certamente) rappresentato  dall'assenza di una norma corrispondente al nostro (ormai) famigerato art. 18,  quanto, piuttosto, da scelte di politiche del lavoro nettamente diverse da  quelle adottate - in particolare negli ultimi dieci anni - in  Italia.
    Prima, tra tutte, l'illusione che le  (fallimentari) politiche neo-liberiste - realizzate dai governi di centrodestra,  in tema di lavoro - potessero (genericamente) limitarsi ad assecondare il mitico  "mercato", offrendo ai datori di lavoro le più ampie possibilità di scelta delle  modalità attraverso le quali chiedere ai lavoratori di offrire la propria  prestazione lavorativa. Da qui, l'incomprensibile proliferazione (unica in  Europa) delle tipologie contrattuali attualmente disponibili nel nostro  Paese.
    Personalmente - considerata la situazione  realizzatasi - continuo a essere convinto che: anche se la disponibilità di  nuove (generalizzate e più "generose") forme di "ammortizzatori sociali" - di  natura economica e di supporto per l'accompagnamento a un'altra occupazione -  sarebbe opportuna e graditissima, al fine di superare senza eccessivi affanni  eventuali periodi di "vacanza occupazionale", ciò non concorrerebbe minimamente  a risolvere la condizione di precarietà nella quale, quasi sicuramente, ciascun  lavoratore ricadrebbe una volta concluso il periodo di  sostegno.
    A tal fine, per evitare il pur minimo  rischio di esprimere "certezze" e per tentare di rendere "visibili" le  condizioni oggettive di coloro i quali Ichino - giustamente - definisce  "lavoratori di serie B", è (evidentemente) opportuno porsi qualche domanda.  Soprattutto allo scopo di "smascherare" i tanti taumaturghi che accorrono al  capezzale dei "precari" dopo aver ampiamente condiviso, sostenuto, difeso ed  esaltato tutti i provvedimenti di legge che hanno concorso a determinare tali  (sofferte) condizioni lavorative e professionali.
    Quindi, ipotizzando di operare in una condizione  di proposta Ichino "a regime":
     a) quanti potrebbero  (impunemente) sostenere che un qualsiasi lavoratore (impegnato, già da alcuni  anni, presso un call-center, con un falso - perché in regime di sostanziale  "subordinazione" - contratto di lavoro "a progetto") vedrebbe, miracolosamente e  definitivamente, ridotto l'indice di precarietà del proprio rapporto di lavoro  solo in virtù del fatto che, licenziato anche senza giusta causa, avrebbe  titolo a un indennizzo economico, salvo, poi, ricadere di nuovo nell'identica  condizione di precarietà?
    b) chi sarebbe in condizione di garantire  a un precario "pubblico" (medico, ricercatore, professore, pompiere, ecc), in  regime di collaborazione coordinata e continuativa già da diversi anni  (situazione diffusamente attuale) - per coprire, tra l'altro, veri e propri  "vuoti" di organico - che la sua condizione di precario sarebbe (magicamente)  superata?
    c) chi potrebbe, tranquillamente, indurre  un lavoratore (reiteratamente) "a tempo determinato" a non considerarsi più un  precario, solo perché, se licenziato (anche senza giusta causa), titolare di un  indennizzo economico? Soprattutto se lo stesso sarà stato (adeguatamente e  correttamente) informato del - non insignificante - particolare che il suo  rapporto a termine potrà avere, presso lo stesso datore di lavoro, una durata di  ben sei anni; salvo poi, essere assunto - con la stessa o diversa tipologia  contrattuale - da un altro datore di lavoro e "ricominciare il  giro"?
    d) chi non proverebbe (almeno) un attimo  di titubanza e/o smarrimento di fronte alla concreta ipotesi che un qualsiasi  lavoratore possa ritrovarsi nella non invidiabile condizione di essere vittima  di un licenziamento non "collettivo", non individuale "per motivi oggettivi",  "per motivi disciplinari" o "per motivi discriminatori" - ben più ardui da  dimostrare, di quanto tenti di far credere Ichino - ma, semplicemente perché, il  datore di lavoro, senza che il giudice possa contestarne l'illegittimità, abbia  ritenuto di assegnargli una (falsa) motivazione di carattere economico od  organizzativo?  
    E', quindi, credibile che un contratto a  tempo "indeterminato" (alla Ichino), unilateralmente risolvibile dal datore  di lavoro in qualsiasi momento della sua vigenza, sia, in concreto, qualcosa  di diverso - in termini di precarietà - da un qualsiasi rapporto di lavoro a  termine "a scadenza variabile"?
    Se, come personalmente immagino e auspico, già  queste prime domande dovessero trovare risposte univoche, è pensabile che Ichino  non avverta il peso dell'enorme responsabilità - morale, oltre che politica -  che si accolla nell'alimentare una vera e propria "guerra tra poveri", quando fa  intravedere nella vigenza dell'art. 18 l'unico impedimento al superamento di  quello che lui definisce "il dualismo del mercato del  lavoro"?
    Se è vero - come lo stesso denuncia - che  "Esistono interi comparti dell'economia italiana nei quali non si assume in  forma regolare", che "Questa è una situazione di grave e diffusa illegalità, che  andrebbe corretta applicando la legge come si deve" e, ancora, che "In una vasta  zona del nostro tessuto produttivo il diritto al lavoro non c'è più", perché  proporre (molto semplicisticamente, a mio parere) di "arrendersi  all'evidenza"?  
    Di fronte ad una situazione di diffusa e  palese violazione delle norme - determinata anche da una legislazione per lo  meno molto "permissiva" (per usare un eufemismo) - che senso ha procedere con  ulteriori "deregolamentazioni", piuttosto che pretendere l'irrinunciabile  rispetto della legalità?
* * *
In estrema sintesi, posto che l'obiettivo indicato da Ichino - il  superamento della condizione di apartheid nella quale versano i lavoratori da  lui definiti "non garantiti", rispetto a coloro i quali, invece, sono tutelati  dall'art. 18 dello Statuto - è certamente condivisibile, perché, pur in presenza  di una legittima quota di flessibilità "numerica" (oltre che "funzionale"), non  mettere in campo tutti gli strumenti possibili (normativi, ispettivi,  incentivanti, repressivi, dissuasivi, ecc) per impedire la proliferazione e,  soprattutto, l'improprio (e reiterato) ricorso alle (troppe) tipologie  contrattuali attualmente disponibili?
    In questo senso, considerato che il senatore Pd  afferma la verità quando sostiene che la maggioranza dei circa 900 mila  lavoratori che hanno perso il posto di lavoro nel corso della grande crisi degli  ultimi due anni sono quasi tutti collocati nell'area dei lavori di "serie B",  perché non "fare della coerenza virtù" e riconoscere che sono le modalità  attraverso le quali, da alcuni anni a questa parte, si accede - di norma - al  lavoro, a determinare l'incontrovertibile carattere della "cattiva  occupazione"?
    Tra l'altro, rispetto ai lavoratori di "serie  A", è solo il caso di rilevare che la c.d. "garanzia" - della quale,  teoricamente, godrebbero i lavoratori tutelati dall'art. 18 dello Statuto - è  tale solo sulla carta!
    Le conseguenze della recente crisi  economica, patite dai lavoratori "garantiti", dimostrano - senza tema di  smentite - che nessun lavoratore italiano è nell'oggettiva condizione di  considerarsi tale.
    Tra l'altro, sono convinto che Ichino ricorra ad  una forzatura e commetta un errore di grande sottovalutazione (e  semplificazione) del fenomeno quando afferma: "E' la possibilità di non  applicare la normativa in materia di licenziamento che costituisce un potente  incentivo economico a ricorrere alla simulazione della collaborazione autonoma o  comunque alla forma del lavoro precario da parte delle  imprese".
    Personalmente, sono dell'avviso che i motivi  siano almeno tre:
    a) un indubbio beneficio economico,  costituito dai minori costi (retributivi e  contributivi);
    b) un altrettanto consistente vantaggio  di tipo "normativo", rappresentato da: ferie non pagate, malattia non  riconosciuta, modalità di "recesso", ecc;
    c) uno stato di "soggezione permanente" e  di sostanziale "condizionamento" del lavoratore.
    Senza, peraltro, dimenticare che, nel  nostro Paese, oltre il 95 per cento delle imprese occupano meno di dieci  dipendenti, con quasi il 50 per cento degli addetti totali. Se si considera,  inoltre, che le piccole imprese (fino a 49 addetti) impiegano un ulteriore 21  per cento degli addetti, appare chiaro che l'area di applicazione dell'art. 18  non è poi così rilevante.
    In più - e chiudo sul punto - sarebbe  interessante (e istruttivo) se il senatore Pd, all'illustrazione delle  catastrofiche conseguenze prodotte (alle imprese) dall'applicazione dell'art.  18, facesse seguire anche la puntuale e precisa indicazione del numero delle  "reintegre" effettive disposte dai giudici  italiani. 
    Certo, la condizione di diffusa precarietà  che caratterizza la stragrande maggioranza dei nuovi rapporti di lavoro - e non  solo quelli che coinvolgono i figli, anche quelli che riguardano molti padri -  rappresenta un fardello molto gravoso che, però, a mio avviso, non si attenua né  si riduce significativamente privando tutti i nuovi assunti della tutela  dell'art. 18.
    Così come non concorre a risolverlo la  sterile (e, spesso, strumentale) contrapposizione tra giovani e vecchie  generazioni di lavoratori.
    Né concorre a "derubricare" il danno -  arrecabile a tutti i futuri lavoratori, privati dell'art. 18 - la previsione  della riconferma dell'illegittimità del licenziamento discriminatorio (come già  anticipato, sempre estremamente difficile da  dimostrare).
    Anzi, a questo proposito, ritengo addirittura  offensivo che - nella risposta al Segretario nazionale della Falcri-Silcea - il  senatore Pd affermi di non considerare "In alcun modo coinvolte la dignità e la  libertà del lavoratore in un licenziamento di natura economica o organizzativa,  dove è invece essenziale proteggere la sicurezza economica e professionale del  lavoratore".
    Personalmente, indifferente agli interessi di  tipo "aziendalistico", che sottacciono all'idea di (sostanziale)  liberalizzazione del licenziamento, continuo, piuttosto, a sostenere che  l'ipotesi di consentire un licenziamento senza "giusta causa" - per motivi di  carattere "economico od organizzativo", aggiuntivi a quelli (legittimamente  previsti e ampiamente utilizzati) di carattere collettivo o individuale, per  ragioni "oggettive" - rappresenta (ancora e sempre) una grave offesa alla  dignità dei lavoratori. Che non sarà mai adeguatamente (e sufficientemente)  quantificabile in termini meramente economici!
    In definitiva, reputo che la soluzione al  problema della precarietà non abbia nulla a che vedere con l' abrogazione  dell'art. 18 della legge 300/70 e - pur senza ripetere tutti i motivi che mi  fanno ritenere il ddl 1481/09 non condivisibile - temo che lo stesso - per i  circa nove milioni di lavoratori che Ichino definisce di "serie B" -  rappresenti, in sostanza, un vero e proprio "specchietto per le allodole".  Nonché il più classico dei "cavalli di Troia", per quel che (oggi) resta del  Diritto del lavoro italiano.
    Esso, infatti, seppur presentato  nell'accattivante veste di epocale "Riforma del diritto del lavoro", finalmente  "traducibile in inglese", come (ossessivamente) ama ripetere l'autore - tende, a  mio parere, a produrre la sostanziale "stabilizzazione della precarietà" e,  contemporaneamente, realizzare il sogno di generazioni  d'imprenditori:   il definitivo superamento dell'art. 18 della legge  300/70.


