venerdì 13 giugno 2008

Ai compagni socialisti

Lettera aperta
Il punto di caduta della sistema Prima repubblica sta nell’aver escluso dall’orizzonte della politica nazionale la fatica della revisione. Il nuovismo ha sconfitto il revisionismo. Nuove alleanze, nuovi patti di tribuna istituzionale, nuovi "programmi di governo" ci devono interessare poco o niente. Occorre invece un Referendum propositivo simile a quello dirimente e rivoluzionario che proposero Nenni ed i socialisti nel ’45. Oggi occorre dare al Parlamento europeo il potere legislativo sulle materie già di competenza comunitaria.

di Rino Formica *)

Care compagne e cari compagni, la Costituente socialista non ha retto alla prova del fuoco elettorale. Una prova ineludibile per chi voglia proporre al paese un’utile e chiara risorsa di governo (tale è stato sempre agli occhi dei lavoratori italiani il socialismo democratico e riformista) e non solo una testimonianza politica e ideale. L’iniquità della legge elettorale combinata con l’insolenza dell’appello al voto utile spiegano solo in parte l’assai magro risultato. Né interessa qui disquisire sul deficit di leadership politica o sulla debolezza dell’attuale gruppo dirigente, quando ha voluto caricare il peso eccessivo delle ambizioni personali sulle fragili spalle di una proposta politica che alcuni di noi voleva larga ma che altri invece hanno ristretto dentro le antiche pratiche del carrismo, questa volta legando le scarse forze dei socialisti non tanto a una prospettiva politica ma a un personaggio, Romano Prodi. Se si aggiungono le passate compagnie radicali, certamente affini ma non organiche alla storia del socialismo italiano, che hanno costretto la proposta socialista dentro il mono-tema del laicismo, una maschera di ferro applicata alle potenzialità e alla vitalità del socialismo italiano, come si erano espresse dal Midas in poi nelle forme della “questione istituzionale”, diventa ancor più chiara la lettura della crisi della Costituente socialista.

L’elemento che rende incerto non solo il quadro politico ma quello democratico è costituito dalla quasi assenza di voci che reclamano l’urgenza della “questione istituzionale”, vale a dire la necessità e la priorità di rimetter mano al patto costitutivo, al suo nucleo centrale, al principio fondante dal quale partì l’opera della Carta costituzionale. Non stiamo quindi parlando di ordinaria manutenzione. Stiamo ponendo il tema della straordinaria revisione. E se ci fu nel lavoro costituente un punto di partenza da riprendere, non per una eccentrica volontà di “ridiscutere tutto” ma per leggere dentro la storia della Repubblica senza lenti ideologiche, decifrarne le contraddizioni e ricercare le soluzioni, quel punto di partenza va ricercato nell’ordine del giorno Perassi nel quale veniva detto che “La seconda sottocommissione, ritenuto che né il tipo di governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare“. Nel quale Odg l’opzione parlamentare è da preferire alle altre non per un giudizio di valore ma in quanto corrispondente alla democrazia compromissoria che solo il sistema parlamentare poteva sostenere.

La domanda oggi è: quel principio da cui partì la Costituente, con l’adozione del sistema parlamentare, che aveva le sue ragioni nel compromesso di due sistemi politico-ideologici cui corrispondeva la divisione del mondo in campi contrapposti, regge ancora il peso dello stravolgimento degli equilibri di potenza e della scala dei valori ideologici e culturali in atto?

Non c’è dubbio che la Carta costituzionale è un capolavoro di unità, non esercizio di machiavellismo politico, cui si applicò una classe dirigente di prima grandezza e che non avremmo mai più avuto. Tenere assieme, formando una “comunità di visione”, la rappresentanza del comunismo internazionale, quella delle liberaldemocrazie occidentali vittoriose, la forza morale e politica della Chiesa cattolica, il ventre molle del conservatorismo nazionale, è stata operazione grandiosa. Non lavoro di banale compromesso, di sommatoria di elementi diversi, ma creazione in Italia di una via originale (la “terza via”) alla formazione della base democratica e alla governabilità.

Ritorniamo alla domanda iniziale: perché la crisi irreversibile della Costituente socialista? Abbiamo detto delle ragioni della congiuntura politica, delle avversità, della gracilità del partito, dell’illusione di lanciare un progetto facendo leva sulla sua coerenza intrinseca, senza il supporto degli apparati, senza il consenso delle macro-strutture dei poteri. Ma c’è una ragione ancora più profonda che spiega l’esaurimento della Costituente, e questa sta nella realtà delle cose, nella fine definitiva dei partiti storici della repubblica.

In sostanza con la Costituente socialista si voleva ridare vita, in uno slancio sentimentale estremo, alla storicità (vale a dire alla necessità storica) del socialismo riformatore in un quadro politico nel quale la storia dei partiti s’è fermata, non c’è più e con essa le culture e, se vogliamo, anche le sotto-culture. Oggi sono rimasti i simulacri del vecchi partiti, solo maschere vagamente somiglianti.
Va subito però aggiunto che il mutamento della geografia dei partiti storici non è avvenuto solo per fattori esterni, per volontà occulta di poteri oscuri, è avvenuto perché è venuta meno nel ceto politico e nella società, in un momento particolare di passaggio epocale (la crisi del comunismo, l’affacciarsi della globalizzazione e, in Italia, l’urgenza di nuovi modelli di governabilità che poggiassero su un nuovo patto costituzionale), è venuta meno, dicevamo, l’intelligenza e la volontà di concepire per la politica nazionale una grande stagione di revisionismo.

Se vogliamo individuare il punto di caduta del sistema democratico della Prima repubblica, questo sta precisamente nell’aver escluso dall’orizzonte della politica nazionale la fatica di dar vita a una fase di revisionismo, sostituendolo con il più comodo e tradizionale nuovismo. Il nuovismo ha dunque sconfitto il revisionismo.

Eppure non mancano i precedenti. All’inizio della storia della repubblica ci sono stati slanci di grande e audace progettualità, eccome! Da parte dei socialisti per come hanno voluto la rupture dell’esperienza della monarchia. De Gasperi per come ha disegnato e perseguito il tracciato liberaldemocratico e laico (laicità concepita da un cattolico liberale come lui) per la giovane democrazia. I comunisti per come hanno amministrato l’utopia rivoluzionaria nella continuità della tradizione storica nazionale e dentro le regole del costituzionalismo. Da parte del terzismo cattolico dei “professorini” che con grande tenacia e visione ideologica configurarono quel particolare compromesso politico e sociale con la sinistra che ha dato forma allo Stato e al rapporto tra politica, società ed economia.

Qui sta l’origine e lo snodo delle contraddizioni, qui bisognerà ritornare non per gusto della storiografia, ma per necessità politica e per l’avvenire.

Tutta roba del passato? Tutti temi da vedere in una dimensione di riflessione storica? Oppure è vero esattamente il contrario, vale a dire è proprio da un ripensamento di quel terreno di culture politiche e ripercorrendo il fiume carsico che ha portato quei fondamenti e quei principi a ibridarsi con i passaggi materiali e forzosi di revisione costituzionale e a confrontarsi con la mappa dei nuovi poteri, dei nuovi centri di potere cresciuti dentro e fuori i confini nazionali; è da questo insieme di modernità e nello stesso tempo di indebolimento della dimensione della politica, di invecchiamento dei partiti che bisogna ripartire per un nuovo revisionismo, per un nuovo riformismo di sistema.

Dobbiamo ammettere che la sinistra entra nella fase discendente quando manca a questo confronto, non riuscendo a ripensarsi fuori dei confini della propria tradizione, considerando la propria storia nei termini statici di conservazione dei patrimoni e non di dinamismo politico, in cui le tradizioni più vitali sono quelle che con maggiore velocità intercettano le sfide della modernizzazione e ne assorbono i fermenti positivi.

Eppure dovremmo, noi socialisti, trarre lezione dal non lontano passato quando, dopo la prima grande scossa che rovinò direttamente sul sistema dei partiti democratici (ci riferiamo a Tangentopoli) vedemmo l’albero della furia giustizialista e non scorgemmo la foresta della crisi del sistema.

Chi meglio dei socialisti poteva, allora, sparigliare il gioco delle forze conservatrici immettendo nel circuito della democrazia bloccata la forza fluidificante della grande riforma (così dai socialisti chiamata e dagli altri derisa), della democrazia governante, come oggi affannosamente è denominata la forma moderna degli Stati?

Finì come sappiamo, con uno spostamento dell’asse politico a destra, cui contribuì lo stato maggiore ex comunista con la sua voglia di immettere il vino del nuovismo dentro le vecchie botti degli egemonismi e delle diversità.

Con l’inseguirsi delle leggi elettorali sempre più “alla carta” e a misura dello “stato di crisi”, è stato il trionfo del trasformismo, del falso bipolarismo che ci ha portato alle paludi di questi tempi, in cui (lo diciamo con tristezza) tre livelli di potere uniti, governo, opposizione e massimo garante, riescono a mala pena a tirare la carretta di una governabilità decente.

Non c’è chi non veda, a fronte di questo quadro, le ragioni della inevitabile caduta e la inadeguatezza della Costituente socialista.

Come e da dove ripartire? E’ evidente che una forza politica, benché ridotta nelle dimensioni e nel peso politico, non può rinunciare a battere il terreno della lotta politica nelle condizioni che la congiuntura impone. E la situazione mostra, a sinistra come a destra, processi di ristrutturazione profonda, sul versante del Partito democratico e della Sinistra radicale, rispetto ai quali i socialisti dovranno trovare forme e strumenti di intervento non minoritari, flessibili, adattabili a situazioni di grande fluidità e soprattutto con una iniziativa audace diretta al cuore della crisi.

Il socialismo italiano interromperà la sua fecondità, questo deve esser chiaro a tutti noi, se rinuncerà a sciogliere i nodi che stringono il Paese. Questi nodi si chiamano: riforma istituzionale, questione sociale e nuova laicità.

Della grande riforma istituzionale abbiamo qui cercato di delineare la dimensione sistemica e non tecnica entro la quale convogliare il confronto e abbiamo anche definito i confini della nuova laicità, da non chiudere nelle antiche dispute tra guelfi e ghibellini.
Anche per la questione sociale va ripreso il coraggio, va recuperato quello spirito audacemente riformista che alla metà degli anni Ottanta segnò con successo l’iniziativa socialista. Oggi come allora c’è uno spirito conservatore da battere, che si nasconde sotto la nostalgia di un’organizzazione del lavoro e di uno Stato assistenziale che appartiene al passato, a una fase nella quale la “classe operaia” è stata non soltanto categoria sociale e produttiva al pari delle altre ma categoria ideologica da usare come arma politica.
Per ragioni di brevità ricordiamo soltanto come i nuovi termini in cui oggi si pone in Italia e in Europa la questione sociale siano in debito con la stagione del riformismo socialista. Sempre per brevità diciamo che la questione sociale oggi si colloca in una dimensione larga, europea, al di fuori della quale c’è la resa senza condizioni alla deregulation selvaggia e a divisioni sociali sempre più acute. Ne sono consapevoli i sindacati? E’ concepibile la rappresentanza sindacale degli interessi compositi dei lavoratori saltando la dimensione sovra-nazionale delle leghe sindacali?

Questo è il terreno di rilancio del socialismo democratico italiano, questa la proposta che i socialisti devono porre alle forze politiche, in un momento in cui il sistema politico tutto è come un grande cantiere di costruzione e di rifondazione. Lo richiede la maturità della coscienza pubblica, la scomparsa del sistema dei partiti storici, delle culture politiche che hanno fatto la storia della democrazia repubblicana; è imposto dall’indeterminatezza dei partiti attuali, dalla moltiplicazione dei poteri, dalla stratificazione disorganica e confusa di questi, dall’irruzione potente e a volte prepotente dei poteri sovra-nazionali che, non incontrando sulla propria strada una forte statualità, entrano in contraddizione con i poteri propri della sovranità nazionale determinando non solo conflitti ma autentici ingorghi. A questo proposito condividiamo la proposta di Tremonti di dare al Parlamento europeo sulle materie già di competenza comunitaria il potere legislativo. E’ una proposta di trasparenza e chiarezza, impedirebbe intrusioni, sovrapposizioni e mediazioni burocratiche da parte di tecnocrazie piene di potere e vuote di rappresentanza.

E’ il solo modo, crediamo, di misurare la diversità strategica degli schieramenti politici a livello europeo (socialisti, popolari, liberali, conservatori) e la funzione concreta dei partiti sovra-nazionali. Oggi si distinguono sulla base delle logiche di appartenenza o del piccolo cabotaggio amministrativo; reggeranno l’urto delle grandi questioni epocali che confluiranno nel Parlamento europeo sotto forma di provvedimenti vincolanti e come si comporteranno i partiti europei di fronte al ridimensionamento con vincolo di legge degli interessi nazionali?

Chiediamo che su questa proposta i socialisti italiani aprano una discussione in sede europea e nazionale, per iscriverla non in un imprecisato calendario ma per inserirla all’ordine del giorno della prossima scadenza elettorale europea.

Cari Compagni e Care Compagne, l’esaurirsi della forza motrice della Costituente socialista, costringe i partecipanti al progetto ad una riflessione nell’ambito dei luoghi di provenienza.

E’ per questa ragione che non ho nulla da ridire se anche voi rientriate nell’ambito del vecchio SDI, con i suoi riti, con i suoi problemi e con le sue difficoltà.

Le ragioni di casa hanno sempre una precedenza, ma non possono costituire uno scopo, perché un partito è innanzitutto una comunità di visione che deve saper parlare a chi è fuori.

Nuove alleanze, nuovi patti di tribuna istituzionale, nuovi programmi di governo ci devono interessare poco o niente, perché i socialisti non possiedono la forza materiale, l’aggiornamento della dottrina dell’autonomismo creativo, e sono privi degli strumenti istituzionali per incidere nei programmi di governo.

Possono creare le condizioni di un nuovo e profondo rimescolamento delle carte tra i due schieramenti.
Proporre un Referendum propositivo simile a quello dirimente e rivoluzionario che proposero Nenni ed i socialisti nel ’45.

Allora si scelse tra monarchia e repubblica oggi è indilazionabile scegliere tra democrazia parlamentare e democrazia presidenziale.

L’esito di questo referendum porrà i problemi delle nuove garanzie democratiche, delle nuove leggi elettorali stabili e non esposte alle convenienze di occasionali maggioranze, di una rinnovata e più alta coesione sociale e di un forte rilancio degli interessi nazionali nella Comunità Europea. Buon lavoro e speriamo in un arrivederci. (12 giugno 2008)

*) Presidente dell'Associazione "Socialismo è Libertà", già parlamentare e ministro

mercoledì 11 giugno 2008

Futuro vo' cercando

Una storia in presa diretta: un ragazzo di Portici ci racconta la sua storia di giovane precario alla ricerca di un lavoro. Al sud come al nord il bisogno di sicurezza si scontra con un’amara realtà.

di Fabio De Rosa *)

Quando hai in famiglia qualcuno che ha già lasciato Napoli è molto più facile, semplice perché basta seguirlo, perché sicuramente ti darà ospitalità, perchè ti aiuterà quando non conosci niente e nessuno.

Se dovessi esprimere una ragione del perché mi sono trasferito a 900 km da Napoli barrerei la casella vicino alla parola lavoro, ma ci aggiungerei: contratto, busta paga, ferie, malattia,contributi e quanto altro è un normale regolare lavoro.

Quando questo diventa l’eccezione si può decidere di vivere un anno della propria vita nella provincia anonima del Nord Italia lavorando in una fabbrica di merendine a cioccolato piuttosto che in una di antine in legno o ancora di cucine componibili o segnare per sempre la propria arcata sopraccigliare con 6 punti di sutura per diventare per 3 mesi una tuta blu, quelle che hai sempre visto in tv durante gli scioperi per il rinnovo contrattuale.

Diplomato all’istituto tecnico a Scampia e deciso a non seguire i compagni di classe andati ad ingrossare le file dei soldati di professione per sfuggire a quelle delle liste di disoccupazione, avevo bisogno di attestare a me stesso ed agli altri che occupavo un posto nella società quello di lavoratore non importa dove né per quanti soldi, ma volevo avere un lavoro di quelli veri con tanto di contratto, di livello, qualificato non come volantinatore o come agente porta a porta di contratti telefonici.

Ma tutto passava per le agenzie interinali che sollevano il datore di lavoro dall’onere di mantenere i rapporti con il lavoratore: non vieni licenziato o assunto ma semplicemente il tuo contratto viene rinnovato o meno.

Rispetto alla situazione campana e di tutto il Sud Italia sembrerebbe una sorta comunque di avanzamento, poiché nelle nostre zone un lavoro regolare è spesso una chimera.
La tutela dei diritti che dovrebbe essere rappresentata da quel contratto è, però, in realtà fittizia poiché essi vengono sistematicamente scavalcati dal ricatto del rinnovo della prestazione lavorativa. Vendi la tua forza lavoro al miglior offerente, quando il mercato lo richiede in periodi già prestabiliti che sono dettati da picchi di produzione o in prossimità di chiusura degli ordini delle fabbriche.

La condizione di ricattabilità è forte e presente al Sud ma anche al Nord seguendo strade molto diverse che però hanno il medesimo scopo: aggirare l’intero apparato di tutele e diritti conquistati a caro prezzo nel passato attraverso il ricatto che ricade sulla tua scelta di vita, sul tuo futuro, su i tuoi sogni e desideri.

La legge 30 pone una questione morale sopra tutte: quella della dignità di ogni individuo di percorrere la propria strada scegliendo lui cosa è meglio per se stesso.
Il lavoro non è semplicemente un problema di salario ma è il diritto indiscusso di dover lavorare per vivere e non di vivere, e ogni giorno morire, per lavorare!

*) Cgil - Articolo 1

LA DERIVA SECONDO LA BANCA D'ITALIA

Spigolando tra le 350 pagine della Relazione Annuale presentata dal governatore Draghi in occasione dell’assemblea di Bankitalia si scopre che i mali della Penisola sono sempre quelli. Ma peggiorati.

di M. Sironi

Nel 2007 gli italiani hanno lavorato di piu’ per guadagnare gli stessi stipendi, hanno cominciato a "tirare la cinghia" non in senso figurato, hanno dovuto risparmiare di meno, rifugiandosi nei Bot, e gli scappa sempre piu’ spesso di emettere assegni a vuoto (naturale quindi che una buona fetta del Paese resti tenacemente attaccata ai pagamenti in contanti). E' il ritratto del Bel Paese che emerge dalla Relazione Annuale della Banca d’Italia, presentata il 31 maggio in occasione dell’assemblea dell'istituto centrale.

Se le "Considerazioni Finali" del governatore Draghi si segnalano per il sereno equilibrio con cui delineano problemi e soluzioni, l’allegato tomo di 350 pagine parla con la franchezza dei numeri, e non ne esce un bel ritratto.

Dunque, nel 2007 l’occupazione in Italia e’ aumentata ancora (+1% il numero degli occupati), ma essenzialmente perche’ la riforma delle pensioni ha trattenuto piu’ italiani sul posto di lavoro (mentre ad esempio diminuiscono gli studenti lavoratori). Quanto alle retribuzioni, l’incremento e’ stato del 2,1%, ma le retribuzioni reali (cioe’ deflazionate in base all’indice dei prezzi al consumo) sono salite solo dello 0,2%. Ma poiche’ la produttivita’, come e’ arcinoto, sta calando da dieci anni, il fattore lavoro e’ passato nel mix del valore aggiunto dal 63% al 64,5%: come dire che gli italiani per guadagnare lo stesso stipendio devono lavorare di piu’.

Nessuna sorpresa quindi se nello scorso anno la spesa delle famiglie italiane per i beni non durevoli (cioe’ la classica spesa della settimana al supermarket, tra cui alimentari e bevande) e’ scesa dello 0,3%. In Italia si comincia a tirare la cinghia, anche se la cifra dedicata all’acquisto di computer, telefonini e comunicazioni in genere e’ salita del 6%.

Ma si risparmia anche sul risparmio, che una volta era l’arma segreta della nostra economia, perche’ la propensione delle famiglie a mettere qualche soldo da parte ha confermato il suo calo costante, passando dall’11,5% del 2006 all’11,2% del 2007. La consistenza complessiva del risparmio (52 miliardi) e’ ora pari al 3,4% del Pil (nel 2006 era il 4,6%).

Visto l’andazzo delle borse, tranquillizza sapere che oggi gli italiani sono tornati ai bot e depositi bancari, tralasciando gli investimenti piu’ a rischio come azioni e fondi comuni, tanto che nello scorso anno le vendite nette di quote di fondi hanno raggiunto i 35 miliardi di euro. Non si arresta invece la marcia verso gli strumenti di pagamento piu’ evoluti: nel complesso l’utilizzo dei sistemi di pagamento elettronico e’ salito del 6,6%, pur restando ben al di sotto della media europea, mentre il numero degli assegni emessi si e’ specularmene ridotto del 6%.

Ma fa scalpore il forte incremento (+26%) degli assegni iscritti al CAI (Centrale Allarme Interbancaria) perche’ senza copertura o a firma falsa. Cresce anche il numero delle carte di credito revocate perche’ senza copertura. Sono invece diminuite, nel settore, le frodi dopo i picchi del 2006.

Se il 58% degli assegni iscritti al CAI riguarda il Sud e le Isole, la differenza tra Nord e Sud viene rimarcata anche dalla tendenza delle famiglie ad utilizzare la cartamoneta, tendenza piu’ diffusa nel Mezzogiorno dove anzi appare in aumento: nell’arco del 2006 la quota di spesa per contanti sugli acquisti di beni di consumo e’ passata dal 58% al 61%. Tra le ragioni indicate dalla Relazione, il timore di frodi e l’ampia diffusione dell’economia sommersa. E chi e’ andato al cinema a vedere "Gomorra", premiato a Cannes, intuisce che cosa questo possa significare.

lunedì 26 maggio 2008

Un esempo da seguire?

Non so altrove, a Milano i muri sono tappezzati di manifesti firmati Alleanza Nazionale con la faccia di Giorgio Almirante. "Un grande italiano. Un esempo da seguire", si dice, facendo riferimento al ventesimo anniversario della sua morte, e a una messa che sara' celebrata in una chiesa del centro. (Allego una foto del manifesto scattata da Leonardo Visco Gilardi).
A nome della sezione milanese dell'ANED esprimo la più sdegnata condanna di questo manifesto. Giorgio Almirante fece parte per 5 anni, dal primo all'ultimo numero, della redazione della rivista fascista "La difesa della razza", principale veicolo nel nostro paese di quella politica razzista che sfociò tra il '43 e il '45 nella deportazione e nello sterminio di migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. E fu altissimo esponente della RSI, arrivando a firmare il famoso manifesto in cui si prometteva la "fucilazione nella schiena" degli "sbandati ed appartenenti a bande" che non si fossero piegati alla leva della repubblica di Mussolini, al soldo dell'alleato nazista.
Il manifesto milanese ci parla della cultura politica di forze che oggi occupano altissime cariche istituzionali. Le lacrime di fronte al museo Yad Vashem di Gerusalemme sono archiviate; le critiche al fascismo, come "male assoluto", pure: oggi è cambiato il vento, e AN rivendica con orgoglio una storia fatta di disonore.
I superstiti dei lager e i familiari dei Caduti esprimono la loro protesta per una iniziativa che riporta indietro di decenni il dibattito politico nel nostro paese.

ANED di Milano

giovedì 22 maggio 2008

Franchezza sul futuro di Alitalia e chiarezza su ruolo Ermolli

Noi del PD siamo a favore del decreto che autorizza il prestito ponte di 300 milioni ad Alitalia, ma...

di Luigi Zanda *)

È per senso di responsabilità nei confronti dei lavoratori di Alitalia che il Partito Democratico vota a favore del decreto.

Al presidente Berlusconi chiedo di parlare di lealtà e franchezza più che di garbo e gentilezza perché finora sul caso Alitalia non abbiamo ascoltato nessuna franca analisi delle ragioni della crisi e nessun chiaro progetto per il futuro. La crisi Alitalia viene dalle degenerazioni che negli anni 80 e 90 hanno caratterizzato la nostra industria di Stato.

Ma la data che segna il passaggio a una difficoltà drammatica è l'11 settembre 2001 quando governi e compagnie aeree hanno aperto gli occhi. Chi ha capito ha preso le contromisure. Chi non ha capito ne ha subito le conseguenze. In Italia, chi ha governato dal 2001 al 2006, ha proseguito la politica del ripianamento delle perdite di Alitalia. Ha sprecato l'occasione di rendere operativo l'unico progetto possibile, creare una holding con Air France e Klm, procedendo alla privatizzazione.

Ma niente privatizzazione, solo continua e progressiva perdita di pezzi di mercato e, per il vincolo europeo, impossibilità di continuare a ripianare le perdite. Tralascio il gravissimo danno provocato dalla dissennata politica che ha visto svilupparsi sull'intero territorio nazionale ben 100 aeroporti che sembrano essere stati fatti crescere apposta per rendere ancor più irrazionale il traffico aereo italiano.

Con franchezza bisognerebbe inoltre valutare il ruolo che Berlusconi ha assegnato a Bruno Ermolli promotore, per procura privata, della 'cordata' italiana tanto annunciata ma che ancora non c'è. Fa molto effetto la disinvoltura con la quale Ermolli ha svolto il suo incarico e la tranquillità con cui ha portato avanti rilevanti iniziative nei confronti di Alitalia, fa effetto se la si confronta con il rumore che a suo tempo il centrodestra sollevò nei confronti di Angelo Rovati per fatti rivelatisi inesistenti.

Il prestito ponte di 300 milioni può avere un senso soltanto se serve a consentire ad Alitalia di sopravvivere il tempo necessario ad avviare e mettere a regime un nuovo progetto di ristrutturazione e rilancio solido e convincente, la cui responsabilità venga assunta da un qualificato azionista del settore dell'aeronautica civile, un azionista capace di pilotare la compagnia fuori dalla crisi. Per noi questo azionista era Air France. Ma il centro destra, capeggiato da Silvio Berlusconi, ha boicottato le trattative per poi, dopo aver vinto le elezioni, balbettare sugli approdi cui Alitalia dovrebbe essere condotta. A questo punto chiediamo che sul futuro di Alitalia il ministro Tremonti venga al più presto a riferire in Senato.

*) Vicepresidente dei senatori del Partito democratico