Lo Stato acquisti le quote nelle mani delle banche e delle assicurazioni private
di Mario Lettieri e Paolo Raimondi
E’ stata un’audizione sobria quella tenuta dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi il 17 marzo scorso davanti alla Commissione Finanze della Camera. Oltre che commentare il ruolo e le carenze dei controlli esercitati dalla banca centrale in passato, su cui abbiamo differenti e più critiche opinioni, il governatore ha comunque evidenziato alcuni utili aspetti di preoccupazione e di possibili interventi per l’immediato futuro che gli organi di stampa hanno ignorato.
Il governatore ha usato più volte il concetto di "pericolo di contagio" per spiegare come il sistema finanziario e bancario internazionale e nazionale ha finora reagito alla crisi. Questo dovrebbe raffreddare un po’ gli ardori di chi, a furia di ripetere che il nostro sistema bancario è migliore di quello degli altri paesi, ci espone al pericolo della sottovalutazione dei rischi.
Draghi ha evidenziato prima di tutto un grave problema di fondo rappresentato dal fatto che per l’85-88% tutti i servizi finanziari e le operazioni in derivati sono condotti solamente su due mercati, quello di Wall Street e quello della City di Londra, che sono stati la fucina di tutte le bolle speculative. Naturalmente sono centri completamente fuori dalla nostra giurisdizione, per cui è urgente che la Banca d’Italia definisca dei criteri e dei controlli severi sulle operazioni internazionali delle nostre banche per evitare che importino altri titoli tossici, esponendosi ad un ulteriore contagio. Misure difensive che potrebbero essere non sufficienti, ma che sono non di meno necessarie.
Nel dibattito in Commissione è anche emerso che le banche italiane sono esposte per 150 miliardi di euro in investimenti e operazioni finanziarie nei paesi dell’Est Europa dove gli effetti della crisi sono più devastanti che altrove. Non è una esagerazione parlare di rischi di un default, di bancarotta di qualche stato, come avvenne in Argentina nel 2002.
A tal proposito occorre approntare subito anche da noi delle reti di salvataggio, per non essere sorpresi dall’emergenza di una crisi bancaria di "importazione".
Oltre che per le banche, i collassi produttivi nei paesi dell’Est comporterebbero anche delle ripercussioni su molti settori industriali e ovviamente sull’occupazione nel nostro paese. Il governo dovrebbe quindi "accompagnare" da vicino le attività italiane all’estero, come fa da tempo la Germania, per evitare improvvisi sconvolgimenti e ulteriori perdite di quote di mercato per il nostro export.
Draghi ha anche spiegato come non manchi la capacità di credito delle banche, anzi ha detto che "queste sono inondate di liquidità".
Ma la percezione di un rischio non più quantificabile dalle banche sta bloccando i flussi di credito soprattutto verso le PMI. A questo punto della crisi, mentre si discute di nuove regole e di nuovi modelli di sviluppo, è forse necessario rivedere il ruolo e la proprietà della Banca d’Italia che fino ad oggi, in accordo con il suo mandato, si è limitata a operazioni di vigilanza finalizzata alla stabilità del sistema e al controllo dell’inflazione.
E’ stato giustamente sollevato in Commissione che oltre a rafforzare i canali del credito, la Banca d’Italia dovrebbe anche dirigerli verso i settori produttivi e dell’industria. Draghi ha evitato l’argomento, ma ha ammesso che altri, come la Federal Reserve americana, a differenza della nostra banca centrale, stanno intervenendo direttamente sull’economia, non solo attraverso le banche private. La crisi globale ha infatti evidenziato la mancanza di istituti statali che sappiano indirizzare le politiche di sviluppo strategico di lungo periodo sostenendole con una conferita capacità di emissione di credito.
L’Italia non ha una Banca Nazionale di Sviluppo. Si è ventilata l’idea di conferire questa missione alla Cassa Depositi e Prestiti, ma non si è mosso ancora niente.
Dovrebbe essere ormai chiaro che la crisi ha messo in discussione, e per sempre, l’attuale modello bancario e finanziario. L’idea che il mercato senza regole detti le regole del gioco non vale più. Il problema è che politici ed economisti vivono nella crisi di oggi ma pensano ancora con i vecchi schemi di ieri.
Anche se in verità qualche anno fa, durante l’indagine parlamentare sulle vicende della Parmalat e della Cirio, emerse l’esigenza di rivedere l’assetto proprietario della Banca d’Italia, a nostro avviso un segnale forte di cambiamento del sistema oggi potrebbe venire proprio dall’acquisizione da parte dello stato delle quote azionarie attualmente possedute in maggioranza da banche e assicurazioni private. (A fine 2008 Intesa San Paolo ne controllava il 30%, Unicredit il 15%, Assicurazioni Generali il 6%, e poi le altre banche).
Ciò darebbe il massimo di garanzia sull’attività, l’indipendenza e l’autonomia della Banca d’Italia, perché, non concordando del tutto con il governatore, il controllo esercitato dalle banche private non sempre è stato "più estetico che sostanziale", come egli afferma.
Infatti il fenomeno dell’anatocismo, il gap sproporzionato tra interessi passivi e attivi praticato nei confronti dei correntisti e la non trasparenza nelle vendite dei prodotti derivati, (caso eclatante la Parmalat!) e quant’altro, dimostrano l’inadeguatezza del controllo da parte della Banca d’Italia.
Riteniamo che sia arrivato il momento di attuare cambiamenti profondi a livello internazionale con l’approvazione di regole bancarie e finanziarie comuni e condivise, ma ci sono provvedimenti che vanno adottati urgentemente anche nel nostro paese come quello della "pubblicizzazione" della nostra banca centrale.